One Is The Other

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Un jazz pulviscolare. Attento, con ossessivita’ amorevole, al suono, alle sue rifrazioni come fosse luce, al fare e al disfarsi della sua corposita’.

Un quartetto in cui l’uno e’ l’altro – cosi’ pensiamo si possa intendere il titolo di questo distillato album  -, in cui il lavoro di ascolto reciproco, ipersensibile, febbrile, e’ il fine della musica che vi ascoltiamo , senza che ve ne siano altri.

Il risultato e’ una discesa agli inferi, naturalmente tristaniana (l’iniziale Lennie Groove non lascia dubbi sui labirinti bop che questa mirabile tavolozza timbrica tenore-piano-contrabbasso-batteria sa cancellare e ridisegnare in continuazione), al cuore di cosa oggi la musica afroamericana sia capace di affrontare in spazi aperti senza ripetersi. Ma anche quasi dolorosamente coscienziosa di quanto il passato -la ‘tradizione’ – sia uno scrigno che a tenerlo chiuso ci sottrae mappe che, a saperle ancora leggere, ci portano forse dove e’ il futuro, di questa musica.

E’ cosi’ che, per esempio, nella chiave di lettura post-moderna che Ethan Iverson ha quasi immortalato con i Bad Plus, lo struggimento di Some Enchanted Evening di Rodgers e Hammerstein si fa dubbio raggelato, ma anche preghiera sommessa, enigmatico carillon senza tempo, sorpresa agrodolce.

E’ cosi’, ancora, che il quartetto sa seguire con meticolosita’, con emotiva inquietudine, il suono che diviene armonie complesse o movimento in tante direzioni e poi d’un tratto si apre,  con immediatezza e spontaneita’, a melodie che per la loro bellezza ti rimangono in testa, come succede in Amethyst, un classico di  Hart, qui al suo decimo album da leader.

Ma questo quartetto e’ speciale  anche  considerando  tutta la carriera, pur ormai quasi leggendaria, di Hart. E’ un gruppo che coltiva con passione da anni, che ha esordito su etichetta High Note nel 2006 e che ha poi debuttato su Ecm due anni fa (“All Our Reasons”). E  che ora non si fa attendere di nuovo  tanti anni e da’ continuita’ a un lavoro  – di scavo, di analisi, di liberta’ creativa mai disgiunta dal rigore espressivo – che, francamente, ha del prodigioso.

E poi e’ bello  che il settantatreenne batterista, compositore e docente di Washington sia  nominalmente, e giustamente, leader – il suo drumming e’ oggi affascinante addirittura come forse mai in passato:  articolato, complesso, sfuggente, allusivo…  – senza esserlo poi di fatto. La leadership e’ di chi di volta in volta, mutevolmente, fra i quattro statunitensi, anche all’interno di una stessa track, “sale” e prende in mano il volante del suono, questo sia nell’andirivieni degli assoli che nelle responsabilita’ compositive. Escluso Ben Street, il cui contrabbasso registra pero’  tutti gli umori di questa musica.

E se, nel gia’ citato brano iniziale, Mark Turner e’ allo stesso tempo Lee Konitz e Warne Marsh (cosi’ come li rileggerebbe Joe Henderson, s’intende! – one is the other, o no??), la presenza del suo tenore in tutto il Cd, con quel suo sound cosi’ controllato ed espansivo al tempo stesso,  e’ veramente pero’ anche una grazia sovraggiunta.


Musicisti:


Mark Turner – tenor saxophone
Ethan Iverson – piano
Ben Street – double bass
Billy Hart – drums


Brani:

01. Lennie Groove
02. Maraschino
03. Teule’s Redemption
04. Amethyst
05. Yard
06. Sonnet for Steve
07. Some Enchanted Evening
08. Big Trees

Links:

ECM Records