Venti anni di storia del jazz a Napoli

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Vita, morte e qualche “miracolo” della prima generazione di jazzisti napoletani.


I primi americani che nel 1943 entrarono a Napoli si trovarono di fronte una citta’ sfinita dai bombardamenti alleati e sventrata nel corpo e nell’anima. Gli alti comandi militari alleati organizzarono un governo provvisorio con il compito di prevenire rivolte ed epidemie, esercitando il massimo controllo con il minimo coinvolgimento nella vita politica. Pochi mesi dopo, con l’arrivo del nuovo Commissario Regionale Charles Poletti, la logica militare cedette il passo alla necessita’ di avviare un processo di democratizzazione della societa’, cercando un’intesa con i partiti e migliorando le condizioni di vita dei napoletani.
Un ampio consenso fu ottenuto attraverso un uso sapiente di vari media: gli interventi a Radio Napoli (la storica stazione radiofonica inaugurata nel 1926), le interviste rilasciate alla stampa, le conferenze pubbliche e i comizi. Ma anche attraverso la musica.
Il Teatro di San Carlo era chiuso e concerti di musica classica con gli orchestrali del Massimo napoletano vennero organizzati due volte alla settimana alla Reggia di Caserta,  altra sede delle forze alleate. I musicisti, che negli spostamenti si servivano di mezzi militari, a fine serata ricevevano una paga sia in denaro che in generi alimentari. Anche la musica “americana” venne impiegata per stabilire buoni rapporti con la popolazione. Ogni nave o truppa di terra aveva una sua big band e non fu difficile per il Commissario Regionale organizzare concerti in diverse piazze napoletane. Questo fu il primo approccio dei napoletani col jazz.

Molti locali furono requisiti per il divertimento delle truppe e a questi si aggiunsero, poi, un nugolo di clubs che fungevano sia da ritrovo per i militari, sia da spacci alimentari. Erano cosi’ numerosi che era possibile decidere di frequentarne uno a seconda della propria arma di appartenenza, religione o nazionalita’, ed erano spesso ubicati in edifici monumentali, il che provoco’ danni talvolta assai ingenti al patrimonio artistico. Inizialmente proibiti ai civili, vennero poi frequentati sistematicamente anche dai napoletani. Molti furono i musicisti locali che, non tanto per passione quanto per bisogno, dovettero adattarsi alla nuova musica degli alleati e apprenderne in fretta gli stilemi, cosi’ da trovare posto nelle formazioni musicali che quotidianamente si esibivano nei luoghi di divertimento americani. Il repertorio suonato da questi complessi era quello tipico delle orchestre swing che furoreggiavano in America, e cioe’ la musica da ballo dei complessi di Glenn Miller, Benny Goodman, Woody Herman, Stan Kenton e ancora quella di Duke Ellington, di gran lunga il migliore, di Count Basie e dei fratelli Dorsey. Anche le formazioni, di solito, rispecchiavano quelle d’oltreoceano.
Com’e’ noto, sbarcando in Italia gli alleati portarono con se’ sigarette, cioccolato, stecche di Lucky Strike e ogni sorta di generi di prima necessita’. Ma non solo. Avevano anche cosi’ tanti dischi da usarli ben presto impropriamente, come merce di scambio con la popolazione civile o per usi domestici (come sottopiatti, sottobicchieri, divisori per scaffali, ecc.).

L’idea di produrre dei dischi per le truppe militari venne nel 1943 al tenente Robert Vincent , a capo della sezione radiofonica del Dipartimento della Guerra. La V-Disc Organisation si avvalse del privilegio di ingaggiare ogni musicista ritenuto idoneo, al di la’ della casa discografica di appartenenza o delle esigenze di guerra, e di far incidere gruppi composti dai migliori musicisti in circolazione che, altrimenti, mai avrebbero suonato insieme. Ne vennero fuori incisioni di altissimo valore artistico. I V-Disc, infatti, raccolsero le prime performances del pianista Lennie Tristano o di un giovanissimo Frank Sinatra, ma soprattutto delle grandi orchestre, da quella di Duke Ellington a quella di Count Basie o di Benny Goodman. I V-Disc furono un’altra via attraverso cui il jazz giunse all’orecchio dei napoletani. Ben presto diventarono veri e propri strumenti di studio, sia per i musicisti emergenti, sia per quelli gia’ affermati. Fu cosi’ che il jazz “americano” comincio’ a sostituire quello che fu poi definito “swing all’italiana”, che aveva in Alberto Rabagliati e Natalino Otto i suoi maggiori epigoni.
Attraverso i V-Disc l’Italia ascolto’ il jazz statunitense in un suo momento di transizione. Lo swing aveva raggiunto il suo vertice piu’ alto e questo, insieme a importanti fattori di ordine sociale, spinse molti musicisti a cercare altre strade. I dischi della vittoria registrarono proprio questo passaggio verso una nuova fase, il bebop.

Se gia’ dagli anni Venti l’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiografiche) forni’ un valido contributo alla diffusione del genere, fu con l’arrivo degli americani che la messa in onda radiofonica di musica piu’ propriamente jazz si fece massiccia. Nel risalire la penisola italiana, dopo la liberazione della Sicilia, gli alleati diedero vita ad un’organizzazione, detta PWB (Psycological Warfare Branch), che ebbe, fra gli altri, il compito di ricostituire le radio locali. In antagonismo con le trasmissioni dell’EIAR, ora mezzo propagandistico della Repubblica Sociale Italiana, inizio’, sotto la diretta egida del PWB, la programmazione radiofonica da Bari e Napoli prima, da Roma e Firenze poi. In queste trasmissioni la musica jazz fu una presenza costante. Il 15 ottobre 1943 rinacque Radio Napoli per volonta’ dell’americano Giorgio Rehm, che allesti’ una stazione trasmittente molto rudimentale sul promontorio di Pizzofalcone. Grazie alle sue attenzioni, Radio Napoli divenne il piu’ importante servizio del PWB. Inizialmente trasmetteva per poco piu’ di quattro ore al giorno, poi i programmi andarono avanti dalle 6 alle 24. Erano previsti ogni giorno anche due programmi fissi di musica jazz: il primo dal titolo Personaggi del jazz alle 12.45; il secondo, a conclusione delle trasmissioni alle 00.30, aveva per titolo Complessi di jazz e si proponeva di far conoscere la musica da ballo americana. I nomi che si legarono alle prime trasmissioni di Radio Napoli furono quelli di Mario Soldati, Arnoldo Foa’, Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi.
Nei primi mesi di occupazione alleata la radio napoletana venne usata solo come mezzo propagandistico sui grandi temi della liberta’, della democrazia, della pace, del benessere economico. La svolta fu, ancora una volta, dovuta all’iniziativa del governatore Poletti, che il 10 marzo 1944 firmo’ un’ordinanza nella quale dava disposizioni sulla riapertura dei locali di divertimento. Fu cosi’ che anche la radio rientro’ nel settore “divertimento”. L’ente radiofonico pote’ presto contare anche sulla presenza di una vera orchestra, diretta da Lucio Ardenti, la quale, pero’, suonava esclusivamente musica da ballo. Seguirono le orchestre di Umberto Colonnese e Gino Campese, i complessi Calace e Pariante e alcuni gruppi jazz in auge oltreoceano.

Il 1  ottobre 1944 la gestione dei programmi di Radio Napoli passo’ dal PWB alla RAI, che costrui’ il nuovo palinsesto sui clamorosi successi raggiunti dalla radio napoletana in un anno esatto di trasmissioni. In ambito musicale aveva dato vita ex-novo a complessi jazz, dato voce ai piu’ grandi musicisti americani di passaggio a Napoli, messo in piedi un complesso di musica leggera e soddisfatto le aspettative degli appassionati di musica classica con collegamenti dal Teatro di San Carlo. Fu, inoltre, un trampolino di lancio per musicisti di valore che avrebbero conquistato, di li’ a poco, un piu’ vasto pubblico.
Oltre al jazz dei V-Disc Radio Napoli ricomincio’ a trasmettere anche canzoni napoletane , molte delle quali gia’ conosciute dagli americani al loro arrivo a Napoli. La radio napoletana fu testimone inconsapevole di un fenomeno importantissimo per la canzone napoletana di quegli anni e per tutta la produzione leggera italiana fino ai nostri giorni: la fusione della melodia italiana (e napoletana) con i ritmi della musica da ballo americana.
Durante la guerra la musica e la canzone non avevano trovato piu’ posto in citta’. Del resto, una citta’ colpita da circa cento micidiali bombardamenti anglo-americani non aveva certo lo spirito per organizzare feste di Piedigrotta o per innalzare inni alle bellezze della natura e all’amore. Ma con l’arrivo degli alleati l’incubo cesso’. Naturalmente, il genere prescelto per il ritorno alla musica fu il canto popolare, che presto si accorse dei nuovi ritmi che gli alleati si erano portati dietro. La guerra diede vita ad una produzione singolare: le canzoni napoletane di guerra. Erano canzoni che, in maniera ora ironica, ora sentimentale, trattavano episodi di vita vissuta durante la guerra, come del fenomeno delle segnorine, o delle “spose di guerra”. Erano composizioni che testimoniavano la vitalita’ della canzone napoletana, che non si lascio’ sopraffare dai nuovi ritmi d’oltreoceano, ma li rielaboro’ liberamente.
Melodia classica napoletana e ritmi afro-americani si erano gia’ “sfiorati” nei primi decenni del Novecento, grazie al flusso migratorio che porto’ tanti italiani negli Stati Uniti, ma sara’ solo nel secondo dopoguerra che tradizione napoletana e americana procederanno con pari dignita’. Saranno soprattutto gli anni Cinquanta quelli in cui i ritmi afro-americani agiranno con maggiore efficacia sulla musica napoletana, inaugurando un filone nuovo, i cui principali interpreti saranno Renato Carosone e Ugo Calise. Attratto da invenzioni e innovazioni ritmiche il primo, modernizzatore della tradizione melodica napoletana dal punto di vista armonico il secondo; il primo aperto a sonorita’ provenienti da ogni parte del mondo, il secondo legato quasi esclusivamente al sound americano.

La radio e i dischi, dunque, furono gli strumenti principali attraverso cui l’Italia e Napoli, in particolare, presero confidenza con la musica d’oltreoceano. All’ascolto privato seguiva spesso lo scambio di opinioni tra appassionati in riunioni che si tenevano inizialmente nelle abitazioni private. Fu questo impulso a fare gruppo, questo bisogno di scambiarsi idee e sensazioni a far nascere l’esigenza di una vera e propria struttura organizzata con lo scopo di diffondere la musica jazz. Nacque cosi’ il Circolo Napoletano del Jazz (CNJ), l’8 aprile del 1954. Fondatori furono Antonio e Tito Livio, Franco Vaccaro, Marcello Avena, Sergio Cotugno e Alfonso Bragaglia. La stampa cittadina diede ampio spazio alla notizia e si soffermo’ sulla programmazione culturale e musicale del CNJ. Le recensioni al concerto inaugurale sembrano essere state piu’ interessate a sottolineare il “colore” che quella musica portava con se’, nonche’ la bellezza della cantante Lilian Terry, piuttosto che il livello dell’esecuzione, storpiando, puntualmente, i nomi delle composizioni eseguite. Tutti i giornali sottolinearono, comunque, il successo del primo appuntamento del neonato CNJ e l’alto gradimento del pubblico. Solo il Presidente Franco Vaccaro, che inizio’ cosi’ le sue corrispondenze da Napoli per il mensile

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