Deliziare e incantare. Crescere e progredire senza nulla sovvertire. Prodigi di “What A Terrible World, What A Beautiful World”, settimo nuovo album dei Decemberists che già ipotecano le vette delle playlist di fine anno. Da quel che se n’è detto e scritto finora quasi tutti sono d’accordo. Con 15 anni di carriera sul groppone, la band di Portland (Oregon) ha trovato la forza di sfoderare la sua opera migliore. Lo percepisci all’istante quando termini l’ascolto di The Singer Addresses His Audience. Brano double-face che prima ti accarezza con chitarra e voce classic folk e poi ti travolge con un graffiante crescendo orchestrale in chiave acid rock. Il testo, invece, suona come un “mea culpa” mordace e ruffiano, un falso appello di perdono al pubblico per aver osato cambiare o per aver ceduto alle frivole tentazioni del dio denaro.
Su questi due binari di convenzionalità e arguta fantasia scorre tutta la perfezione delle restanti tredici canzoni. Musica e scrittura, suoni e messaggi, s’intrecciano in un estatico gioco di estro e luoghi comuni, afflizione e letizia (tanto per parafrasare anche il titolo dell’album, tratto dai versi finali di 12/17/12), realtà e finzione. Sembra facile e semplice, ma bisogna essere musicisti scafati e preparati come i Decemberists per potercela fare, oltre, è ovvio, alla fortuna di avere in una band una voce e una penna come quella di Colin Meloy, di sicuro uno tra i migliori songwriter statunitensi degli ultimi vent’anni.
Di questo disco tutto può dirsi, tranne che annoi o che non sappia dare a chi l’ascolta la gioia di scovare, qua e là, l’impronta o l’influenza dei suoi modelli. Perché i Decemberists non inventano proprio nulla. Calcano la mano nel suonare perfettamente americani e imitano senza falsi pudori i nomi e i paradigmi stilistici che hanno fatto scuola nel vecchio come nel nuovo continente. Così se in Cavalry Captain sembra di ascoltare il pop arioso e cristallino dei Prefab Sprout o degli Atzec Camera, in Philomena riecheggia invece la gaiezza infantile di Buddy Holly, edulcorata da coretti doo-wop in perfetto stile anni Cinquanta. Altrove troviamo il jingle-jangle popedelico dei R.E.M. (lanciato in orbita dal singolo Make You Better), il folk-blues radiofonico di Till The Water Is All Long Gone, le chitarre, i violini e le fisarmoniche ancor più campestri di The Wrong Year e Better Not Wake The Baby, il pathos sommesso e introspettivo di Bob Dylan (o Neil Young, fate voi) nella già citata 12/17/12, l’epicità west coast degli Eagles in Mistral, il tex-mex e spaghetti-western dei Calexico in Easy Come, Easy Go o anche il più stucchevole esempio di arena folk-rock che si possa immaginare nella finale A Beginnig Song. Un disco che suona come l’apoteosi dei luoghi comuni del pop, del folk e del rock, eppure dannatamente incisivo, immediato e gradevole.
Voto: 8/10
Genere: Pop-Rock / Alternative Folk
Musicisti:
Colin Meloy – lead vocals, guitars, bouzouki, harmonica
Chris Funk – guitars, banjo, bouzouki, mandolin
Jenny Conlee – piano, organ, vibraphone, accordion, keyboards
Nate Query – bass guitar, upright bass
John Moen – drums, percussion, backing vocals
Rob Moose – violin, fiddle
Kyleen King – viola
Patti King – violin
Anna Fritz – cello
Victor Nash – trumpet
Rachel Flotard – backing vocals # 1-4, 7, 11-14
Kelly Hogan – backing vocals # 2-3, 9-10, 12
Laura Veirs – backing vocals # 5
Ragen Fykes – backing vocals # 6, 8
Moorea Masa – backing vocals # 6, 8
Brani:
01. The Singer Addresses His Audience
02. Cavalry Captain
03. Philomena
04. Make You Better
05. Lake Song
06. Till The Water Is All Long Gone
07. The Wrong Year
08. Carolina Low
09. Better Not Wake The Baby
10. Anti-Summersong
11. Easy Come, Easy Go
12. Mistral
13. 12/17/12
14. A Beginning Song
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