Singular Curves

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Una brina funk,  sottile e irraggiata,  forse ricordo stralunato  di una melodia  calypso, divertita e riverente,  si forma sul manto sonoro dell’iniziale “It Did”, composta da Ohad Talmor che per primo entra in scena e che dopo aver esposto il tema – Swallow e Nussbaum hanno nel frattempo  già bell’e staccato insieme e fanno parte del sound  ci mancherebbe  – non è che propriamente inizi l’assolo, no.  Diciamo  che è piuttosto il tema che  stinge, che cioè gli si sfarina tra le chiavi del  sassofono tenore,  ampliandosi ed evolvendosi in un  dialogo a tre avvincente e sorvegliato,  in variazioni introverse  ma  ariose, in un’azione sonora limpida e rapida.  E  allora letteralmente si comincia a improvvisare.  E  cosa mai succederà  nelle successive  battute è tutto da inventare all’istante.

Perchè si, c’è una  gestualità, una pratica, in questo aureo combo alla sua seconda prova (non si può fare a meno neanche del loro primo,  “Playing in Traffic”,  AU9019)  che ha a che fare con lo stupore, col gioco.  Aldilà degli stili e di cos’altro, qui c’è il jazz nella sua essenzialità. Nella sua concreta inesprimibilità. Candido e minimale, quieto, che sta su sè stesso.  Curatissimo e imprevedibile.  Strutturato e libertario.

Mettici,  s’intende, che questo Talmor che smuove tutta la nostra ammirazione è allievo, prima di tutto spirituale, di Lee Konitz, cioè di un mito vivente che ancora oggi sale sul palco senza sapere se e quando partirà per l’ennesima ricognizione, punto e a capo,  della “sua” “Body and soul”, e se si, in quale tonalità e cose così.  A proposito, con quale commovente imprevisto si chiude questo album?  Naturalmente con  “Body and soul”.  E indovinate un pò con quale  “canone” si chiudeva  “Newsreel”, album solista “corsaro” del sassofonista di origine israeliana (AU9023 – a suo tempo, il 2011, ci sfuggì di recensirlo, e oggi ne siamo pentiti).  Nientemeno che con la folgorante “Background music” di Warne Marsh, che fu vero e proprio fratello gemello in arte (ma al tenore!) di Konitz.

E poi, una cosa, e qui lo zampino dell’altosassofonista chicagoano  ci dev’essere ancora, per forza.  A noi  Talmor  ricorda, nella “voce” – cartavetro,  sfumature in bianco e nero,  emotività malcelata -, Wardell Gray,  gigante tra i minori (?!!)  si diceva una volta,  anello di congiunzione tra il classicismo di Lester Young e la rivoluzione bop di Charlie Parker.  In realtà fra la sublime indolenza esistenziale di Pres e la febbrile, psicotica, angosciosa, angelica corsa verso il cielo infinito, di Bird. Che un musicista di oggi appaia in sintonia con tali abitualmente obliatissimi  “sentieri interrotti” va a tutto merito di un ampliamento non convenzionale delle “offerte” del jazz contemporaneo che questo “Singular curves” realizza.

Mettici,  ancora,  un batterista come Adam Nussbaum, dotto e saggio, fra l’altro,  in un’arte centellinante e percettiva  quale è l’uso delle spazzole e mettici,  infine,  Steve Swallow, uno dei grandi del jazz.  E che, figuriamoci,  tale era già  quando nel 1961 (!) suonò il contrabbasso nei dischi Verve in trio con Jimmy Giuffre e Paul Bley che il patrimonio discografico contemporaneo vede appannaggio della Ecm!  Steve Swallow che poi, da quarant’anni o giù di lì a questa parte si è inventato –  l’invenzione di nuovi strumenti è la conseguenza di tutte le rivoluzioni musicali – uno strumento a corde che,  diciamolo una volte per tutte, è sbagliato (per carità, nel senso che non è   g i u s t o ) definire un basso elettrico.  Si, ha un plug,  si amplifica da qualche parte, ma la purezza “woody” del suo sound, di quel periodare su cinque corde,   è unica e mirabile,  come emerge dalla intro sax e.. chitarra (!!) di “Ups and Downs” (la firma è quella di Bley, ma stavolta  si intende Carla),  momento sospeso, di magica soavità, le prime battute ma poi anche tutto il brano (ma a noi, si è capito, piacerebbe circostanziare anche sulle restanti dieci tracce, in una confezione in cui  tutto ha una ragion d’essere, tout se tient):  rimbalzano i ricordi sempiterni addirittura di “Rebecca”,  Konitz/Bauer, in mono,  su 78,  vivid sound del tempo che fu,  orologio ormai fermo.

Ma un orologio fermo,  in realtà,  che le “Singular curves” di questo trio rimettono in funzione,  in sincrono  – e in raccordo –  con le cose più eccitanti e “ventunesimo secolo”  che ruotano intorno al jazz, con la flessibilità e la costitutiva  “apertura” che una formazione simile assicura, con la “filiera garantita” che abbiamo visto da dove parte e che arriva là dove oggi stanno formazioni,  esperimenti,  dischi, laboratori,  di sintesi (abbiamo definito così, recentissimamente, qui sulla nostra rivista, anche l’album del nuovo quartetto di Mark Turner, “Lathe Of Heaven”, giusto per produrre un esempio),  testa/coda scapestrati/avveduti,  insomma  eccitanti che rimettono in gioco tutto il vocabolario espressivo del jazz,  la sua storia ma anche il suo spazio . E il catalogo Auand ne sa (cioè  ne custodisce, oltre ovviamente ai lavori qui già citati,  giusto per evidenziare un’altra coordinata) bene qualcosa.

 

Musicisti:
Steve Swallow, electric bass
Ohad Talmor, tenor saxophone
Adam Nussbaum, drums

Brani:

 

Link:
Auand