Il viaggio di terra di polvere…e di uomini

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Perchè Un[folk]kettable ha ragione quando ci dice che la musica nasce prima dalla Terra e dall’Emozione e poi finisce sugli spartiti. Perché è proprio vero quando penso che sio perdono ore incontaminate a badare ai dettagli solo per il bisogno di apparire e farlo prima di tutti e meglio di tutti…e poi alla fine perdiamo di vista l’essenza terrena della musica…perdiamo strada facendo la spiritualità, l’emozione, il messaggio…smettiamo di mostrare “l’uomo”. Nico Morelli l’ho conosciuto oggi che non sono ancora “uomo” e sicuramente non sono abbastanza cresciuto per dar peso come si deve al suo pianoforte…anche se di pianoforti ne ho sentiti e ne ho prodotti in questa vita. Ma questo disco dal titolo “Un[folk]kettable Two” che fa da seguito ad una passata pubblicazione del 2006, è un lavoro che dal semplice pianoforte si sviluppa in atmosfere, paesaggi, momenti sociali e popolo di periferia. Ci troviamo nelle eterne capitali del mondo, ma anche nei rioni polverosi dei villaggi che nessuno conosce. C’è la Puglia, c’è l’Africa, c’è Berlino, ci sono i canti popolari, c’è la pizzica di arie di festa…ma soprattutto ci sono le “voci degli uomini”. SoundContest ha già recensito questo bellissimo lavoro…io ho avuto la fortuna di fermare il pianista e l’uomo Nico Morelli per un’intervista che sinceramente non avrebbe la capacità di essere abbastanza.

 

 

Comincerei dal lanciarti un’analisi che penso sia un ingrediente fortissimo del tuo luogo percorso come musicista: qualunque sia il tempo e l’ispirazione, qualunque sia il correndo di musicisti, direi che c’è sempre forte il riferimento alla propria terra…e non solo all’Italia…

Si certo; adesso è un bel po’ di anni che vivo di jazz, col jazz, dal jazz. E sono 20 anni che vivo lontano dalla mia terra. Quanto basta per arrivare a delle riflessioni di natura artistico/esistenziale: dopo così tanti anni e dopo così tante esperienze mi sono accorto di essere italiano, pugliese, di suonare e amare una musica nata e sviluppatasi in un altro continente – una musica autentica che nasce dal popolo, dalla terra – poi mi sono accorto che il luogo in cui sono nato ha anch’esso una musica del popolo basata sulla terra, autentica… Che non è meno importante o degna di quella musica cresciuta oltreoceano che chiamiamo jazz. La musica della mia terra quindi, e la musica che frequento, il jazz. Prendere atto in maniera profonda di questi due aspetti in me presenti mi ha portato a fare un tentativo di fusione, che secondo me andava fatto… Se non altro per essere onesto con me stesso – sebbene io ami il jazz non sono americano, non vivo a New York e non ritengo la musica della mia terra meno importante di quella. Il resto è venuto da se e continuerà a venire.

 

Un tale processo di conservazione è salvifico o semplicemente inevitabile per ognuno che produce arte?

Per me non ha voluto essere un progetto “salvifico” – tutto è giustificabile in musica – rispetto tutte le scelte artistiche; rispetto e giustifico musicisti che danno alla musica un significato politico – o anche quei musicisti che decidono di approfondire un solo aspetto o un solo stile musicale dedicandovisi tutta la vita – rispetto quei musicisti che si lanciano nella fusione di più stili – o quelli che fanno un lavoro filologico quanto più profondo possibile – tutte le scelte le condivido e le rispetto – nulla è obbligatorio, ne “inevitabile” appunto – nel mio caso ad un certo punto ho sentito questa esigenza di fare questo tentativo…e “tentativo” vuole rimanere… mettere Insieme la musica jazz che mi appassiona da sempre e la musica che rappresenta il mio essere, essendo uomo del sud…della Puglia – volendo fare un discorso che esclude in ognuna delle nostre esistenze il fattore “coincidenza” ho voluto pensare che il fatto che io sia nato nel sud della nostra Italia non sia stato un fatto casuale… e che quindi sia mio “dovere” dare un significato a questa cosa attraverso la mia arte.

 

Cosa ti ha spinto dopo tutto questo tempo a scrivere un “sequel” di “Un[folk]ettable?

Mi piace seguire e sentire quel che mi succede intorno, senza imporre, senza prendere decisioni o impormi delle scelte necessarie – questo secondo album è arrivato “da sé”…

Per quanto questa affermazione possa sembrare strana… invece è verissimo!!! Il primo “Unfolkettable” ha scatenato una serie di conseguenze – c’è stato chi ha apprezzato quel tentativo, chi lo ha accolto, chi non lo ha amato –  fra chi lo ha apprezzato c’è stato qualcuno che ne ha colto il tentativo sincero di cui parlavo sopra. Un tentativo senza secondi fini, ma reale, genuino. Mettere insieme le due musiche e vedere cosa ne scaturisce. Una persona in particolare, la etnomusicologa Flavia Gervasi ha colto nella sua totalità la finalità di questa operazione e non solo: ha voluto far evolvere quel tentativo, perfezionandolo e reinterpretandolo anche con la propria sensibilità. Questo secondo album non sarebbe esistito senza il grande lavoro di Flavia e la sua tenacia nel realizzarlo.

 

Non so se sia corretta come visione ma è frequente la sensazione di “Africa” che ritrovo nella tinteggiatura di questo lavoro. È una sensazione che avevo voglia di condividere…non so cosa ne pensi…

È curioso questo tuo punto di vista perché mi porta a raccontare un aneddoto che però è importante in questo lavoro. La Francia, Parigi, sono luoghi in cui la convivenza di più etnie è cominciata da qualche anno in più che non in Italia. Quando sono arrivato in Francia ho subito sentito e respirato nella musica queste nuove abitudini. La famosa “world-music”…che però fino a quel momento avevo vissuto in maniera più distante non essendoci mai stato immerso. In particolare ricordo un lavoro discografico di un artista che avevo casualmente ascoltato appena arrivato in Francia e che mi aveva particolarmente colpito: il musicista cantautore senegalese “Baaba Mal” – avevo sentito un suo album in cui c’era esattamente questa fusione di jazz e ritmi tribali africani. Forse nel mio lavoro c’è qualcosa di quel sapore, visto che non ho mai dimenticato l’emozione che quell’ascolto di Baaba Mal mi aveva dato.

 

Ma in “Silicium” sicuramente o anche in “Pizzica fattincasa” c’è dell’elettronica o sbaglio? E in generale non hai mai pensato a sposare sfacciatamente questa direzione?

In quel brano ci sono degli effetti di riverberi e delay sul sax di Raffaele Casarano che danno un accenno nell’uso dell’elettronica. In realtà c’è poco di elettronico – sono anni però che nei miei concerti uso delle macchine loop, delay e reverberi. Nel mio disco precedente “B2bill” (con Emmanuel Bex e Mike Ladd) c’è tanta elettronica nei vocoider, loop machine e chi più ne ha più ne metta – quindi la risposta è si, che l’elettronica sia la benvenuta… Mi piace!

 

E poi della “fusion” (le virgolette sono doverose) con “Un buon inizio” e anche qui il piano classico lascia il posto “all’avanguardia”…da dove esce l’esigenza di questa contaminazione?

Nasce dalla curiosità nuda e cruda…dall’apertura…dalla voglia di sperimentare, ma nella sua accezione più sanguigna: dalla voglia di divertirsi senza farsi troppe paranoie intellettuali.

 

E parlando proprio di aborigeni direi che la “Danza bella nebbia” la dice lunga in questo senso…quindi se dovessi citare le origini di Nico Morelli, direi che la tua musica proviene dalla terra prima ancora che dagli spariti…

È bellissima questa tua sensazione e la condivido a pieno. Del resto penso che tutta la musica “sincera” nasca dal nostro “dentro”…e nel nostro “dentro” non ci sono spartiti…c’è terra ed emozione.