“Epico” duetto con Avitabile all’Arena Flegrea

0
42

Dagli Hot Five e Hot Seven di Louis Armstrong alle formazioni hip-hop dei Public Enemy e degli N.W.A; dal be-bop di Charlie Parker ai Last Poets; da After school session di Chuck Berry a Silent Tongues di Cecil Taylor, da Stevie Wonder ad Archie Shepp, da Mingus a Steve Coleman: forse tutti i “linguaggi”, le figure geniali, i maggiori esiti artistici della musica afroamericana è possibile “leggerli” in questo modo: semplicemente come musica etnica.

Certo però, va subito aggiunto, di una comunità perennemente “espropriata” delle proprie acquisizioni e che perennemente rinasce altrove, si reinventa, sposta più in là il suo orizzonte di pratiche musicali ed esistenziali.

In buona sostanza si può ritenere che questa affermazione non sia estranea a quello che Lester Bowie, leader degli Art Ensemble of Chicago e strepitoso trombettista, chiamava Great black music.

E che Kamasi Washington, in questo nostro secondo decennio del Ventunesimo Secolo, denomina tutt’assieme – tutti i “generi” del fioritissimo albero genealogico dell’etnos afroamericano -, sempre molto semplicemente, così: jazz.

E che il pubblico dell’Arena Flegrea abbia assistito, in un appuntamento irrinunciabile di quest’annata concertistica partenopea, a un set così definibile non ci sono dubbi.

Però, come nel mitico Cotton Club dove cominciò l’orchestra di Duke Ellington o come nei locali notturni parigini degli anni Cinquanta o come in un festival lounge dei nostri giorni il pubblico – con un’ampia presenza di giovani e giovanissimi – ha ascoltato ma ha anche ballato, in un coinvolgimento emotivo e “totale” che per un concerto jazz sembra un fenomeno seppellito.

Ed e’ invece un “miracolo” che al trentottenne sassofonista tenore californiano riesce.

E’ che nel liquido iridiscente del suo sound sembra esservi disciolta una polverina magica che lo nutre di utopie: di liberazione, di pace perpetua, di eguaglianza sociale e politica. Che fa rivivere quello “futuristic” di Sun Ra, il “cosmic” dell’ultimo Coltrane, rimaterializzarsi il “kharma” di Pharoah Sanders, sprigionarsi la musica come ayleriana healing force of the universe.

Arroventato, però, da un fuoco poliritmico, da un furore percussivo, da colate batteristiche, che ricordano certo Miles elettrico, che sembrano rinviare agli spaesamenti ormolodici di Ornette. E da un approccio, uno spirito, una “cultura”, che sono quelli dell’hip-hop, dall’old-school fino al manifesto-capolavoro dei nostri tempi, quel “To pimp a butterfly” di Kendrick Lamar a cui Kamasi ha dato un contributo ragguardevole.

E, a proposito di album che segnano una svolta, tali vanno senz’altro considerati “The epic”, il triplo cd d’esordio del 2015 che fa parlare di Washington come dell’indiscussa nuova “stella” del jazz mondiale, centosessantacinque minuti di musica che, oltre la sorpresa e l’ammirazione, attendono ancora forse un’analisi approfondita.

 

Foto di Clauda Nappi

 

E, nel 2018, ancora una volta nello stupore generale, il seguito con “Heaven and earth”, in pratica l’album che il musicista ha presentato all’Arena Flegrea, ancora un oceano di brani lunghi, complessi e liberatori, un lavoro che nella versione in vinile e’ un cofanetto di cinque LP (!!!!) e nei cui arrangiamenti e’ stavolta caratterizzante la presenza in molti brani di archi e coro, con effetti veramente stranianti, e che rendono ancor piu’ indefinibile in poche battute la sua musica.

Va però osservato che nel live dell’altra sera, nella “snellezza” della piccola compagine orchestrale – sia chiaro: la vera ossatura anche dell’album – il pedale piu’ spinto e’ stato quello della pura energia, della felicita’ ritmica (i batteristi Robert Miller e Ronald Bruner jr., l’irrefrenabile contrabbassista Miles Mosley), della danza (quella inesausta, evocativa, contagiosa, della vocalist Patrice Quinn), di assoli evocativi, a perdifiato, di unisono e di melodie (due, tre, quattro, anche cinque) sovrapposte a opera del leader e del trombonista Ryan Porter. E del tastierista Brandon Coleman, forse il vero alter ego di Kamasi.

E se e’ cosi’ probabilmente allora non e’ un caso che, nella ieratica, struggente, spiritualissima Truth, il leader non suoni, resti in ascolto di un lungo, ipnotico assolo al piano elettrico proprio di Coleman.

C’e’ da dire, infine, dell’apporto di Enzo Avitabile che si e’ aggiunto negli ultimi quaranta minuti alla formazione statunitense (il concerto è durato in tutto un’ora e quarantacinque) non dando invece luogo, per motivi che non hanno trovato spiegazione e che non conosciamo, all’annunciato suo set con i Bottari.

Ebbene si e’ trattato di un contributo che ha aggiunto unicita’ all’unicita’ di questo debutto napoletano di Kamasi Washington. Oltre a una sua personale composizione, Enzo ha dato il suo contributo generoso e entusiastico a versioni irresistibili di Fists of Fury e Street fighter mas (i due brani sono nell’ordine il primo e il terzo singolo estratti da “Heaven and earth”), straripanti di energia blues. E ineditamente coloratisi, grazie alla presenza di Avitabile, di suggestioni mediterranee.

 

KAMASI WASHINGTON + ENZO AVITABILE
Napoli, Arena Flegrea
17 luglio  2019