Un disco, Dedicated To Bill Evans, in cui Luigi Ruberti, compositore, contrabbassista ed arrangiatore, rivisita l’opera artistica di uno dei piu’ grandi innovatori della musica jazz.
Cogliendo in pieno l’insieme dei grandi meriti e valori di Evans – come ad esempio gli elementi di neoclassicismo applicato al jazz, l’inedita importanza attribuita al contrabbasso, strumento prediletto di Ruberti, e la visione “colta” dell’arrangiamento, inedita prima dell’avvento di Evans – Luigi Ruberti ha affrontato lo studio, la rilettura e la rielaborazione dei pentagrammi di Evans con occhi nuovi, certamente modernizzati dal trascorrere del tempo ma doverosamente rispettosi dell’eredita’ artistica del grande maestro. Gia’, perche’ Bill Evans seppe rappresentare una vera e propria svolta; nella storia del grande jazz c’e’ un “prima” ed un “dopo” Evans.
Riassumendo brevemente la storia, il jazz, dalle sue origini – affondate nella musica blues dei negri schiavi d’America – e fino alla prima meta’ degli anni cinquanta del novecento, era stato un’espressione prettamente popolare e folclorica, prodotto ed interpretato in maniera per lo piu’ “artigianale”, da musicisti spesso autodidatti, che non avevano studiato piu’ di tanto o che, se avevano avuto un maestro, avevano militato al massimo in qualche banda di paese. Con tutto il rispetto, naturalmente, per i maestri delle bande musicali, ampiamente diffuse anche dalle nostre parti e, senza le quali, sarebbe mancata buona parte della cultura musicale popolare. Con la differenza pero’ che, nel vecchio mondo nostrano, esisteva anche una scuola di musica molto piu’ antica e piu’ colta. La nostra musica classica risale infatti a tempi in cui, in America, i bisonti scorazzavano liberi in grandi praterie, dove i pellerossa vivevano indisturbati a casa propria. L’America fu scoperta e colonizzata come terra di lavoro, la cultura era inizialmente limitata a quella dei contadini e degli allevatori, montanari e cacciatori. Le “belle arti”, come le intendiamo noi, hanno cominciato a svilupparsi solo dopo l’affermazione del benessere materiale. Ecco che un musicista come Evans, che aveva studiato musica classica al conservatorio ma era stato folgorato dal jazz, aveva rivoluzionato il modo di comporre, di arrangiare e di eseguire il jazz, in cui aveva introdotto elementi riconducibili a Debussy ed a Chopin. Aveva apportato nel jazz elementi melodici, armonici e tecnici assolutamente innovativi e quasi del tutto sconosciuti prima, ed aveva conseguito un consistente valore aggiunto in termini di eleganza e di raffinatezza. Ma aveva anche sconfinato, lui musicista bianco, in una sfera appannaggio dei neri, e questa sua ingerenza era molto, ma molto, mal vista dai titolari naturali. Miles Davis pero’, avendo intuito la fortissima personalita’ e l’insostituibile valenza innovativa di Evans, non esito’ a sfidare l’apartheid chiamandolo a suonare con lui ed attirandosi le critiche e gli strali dei fratelli neri per questo “tradimento” alle ragioni della razza. La vita di Evans fu molto tormentata, fu dedito alla droga e mori’ suicida poco piu’ di trent’anni fa, un anno dopo la morte del fratello, anch’egli suicida. Conobbe molti periodi di depressione, uno dei piu’ gravi segui’ la morte per un incidente di Scott LaFaro, suo amico e contrabbassista di fiducia nel leggendario trio col batterista Paul Motian. Proprio perche’ Evans dava moltissima importanza alla valenza armonica del contrabbasso, che valorizzava nei suoi arrangiamenti molto piu’ di quanto fosse mai stato fatto prima, e trovava nell’amico Scott un intenso affiatamento, per cui la sua improvvisa scomparsa lo getto’ in uno dei tanti episodi di profonda costernazione.
La scelta di Ruberti, ampiamente giustificata dalla storia, ha dovuto necessariamente privilegiare una piccola parte della vastissima produzione di Evans, cogliendo attentamente gli elementi stilistici del grande maestro che maggiormente ne hanno determinato l’importanza in termini di innovazione, ma evitando i rischi del confronto, indubbiamente pericoloso e potenzialmente controproducente.
Anzitutto, ha evitato la formazione del trio, eccessivamente impegnativa in termini i confronto stilistico per via del minimalismo intrinseco della struttura, ed ha preferito un ensemble piu’ ariosa, integrando la tromba ed il flicorno di Gianfranco Campagnoli, rievocativi dell’apporto che fu a suo tempo di Miles Davis, ed il vibrafono, anche questo uno strumento frequentato da Evans in alcune occasioni, affidato all’ospite d’onore Mark Sherman che ha fornito alla selezione di brani un contributo di gran classe. La giusta ampiezza della formazione ha permesso uno sviluppo maggiormente articolato e di piu’ ampio respiro negli arrangiamenti, nelle armonizzazioni e negli spazi d’improvvisazione.
A Mimmo Napolitano e’ toccato l’oneroso compito di interpretare il ruolo che fu di Evans, compito che Napolitano ha approcciato con serieta’ ed umilta’ risultando sempre adeguato e complessivamente piu’ che credibile. Giuseppe
Ruberti ha ovviamente riservato a se stesso il ruolo che fu di Scott LaFaro, ma anche di Eddie Gomez o di Mark Johnson, riversando nell’approccio al progetto, sia nelle fasi preliminari che in quelle esecutive, gli elementi che lo accomunano ad Evans: la sensibilita’ classica derivante dagli studi canonici, la passione e l’interesse per il ruolo del contrabbasso, la sensibilita’ e la raffinatezza nell’affrontare l’armonia. Il risultato e’ sotto gli occhi o, meglio, le orecchie di tutti quanti vorranno ascoltarlo.
Musicisti:
Luigi Ruberti – contrabbasso
Mark Sherman – vibrafono
Mimmo Napolitano – piano
Gianfranco Campagnoli – tromba e flicorno
Giuseppe LaPusata – batteria
Brani:
01) My Bells (Bill Evans – L. Gene)
02) Very Early (Bill Evans – L. Gene)
03) Time Remembered (Bill Evans)
04) Bill’s Hit Tune (Bill Evans)
05) Peace Piece (Bill Evans)
06) Maxine (Bill Evans)
07) We Will Meet Again (Bill Evans)
08) Carnival (Bill Evans)
09) Epilogue ((Bill Evans)
L’intervista di Sound Contest a Luigi Ruberti