Cantando prosegue il lungo e storico sodalizio tra il pianista svedese e l’etichetta di Manfred Eicher, un rapporto che iniziato al fianco di mostri sacri e rappresentativi della label bavarese (Charles Lloyd, Don Cherry, Jan Garbarek e Tomasz Stanko) ha poi brillato di luce propria grazie ad album di grande spessore quali War Orphans (1998), il doppio Serenity (2000) e il piu’ vicino Goodbye (2006). Il discorso di Bobo Stenson si configura sempre ad ampio raggio estetico, abbracciando e rielaborando materiali stilisticamente eterogenei come pochi altri pianisti al giorno d’oggi. Seppur differenti sul piano tecnico e formale, gli unici termini di paragone contemporanei potrebbero essere Uri Caine e Giorgio Gaslini ma li’ dove il pianista statunitense e quello italiano operano e attingono secondo concetti guida e nuclei tematici Stenson, al contrario, ingloba ed esplora una gran varieta’ di codici espressivi nel medesimo recinto. Ecco allora stagliarsi la serica Olivia (scritta da Silvio Rodriguez) accanto a una magica e crepuscolare Song Of Ruth tratta dal repertorio del compositore cecoslovacco Petr Eben (recentemente scomparso), la moderna enfasi armonica e improvvisativa di Wooden Church e M (entrambe firmate dall’ottimo contrabbassista Anders Jormin) che introduce l’elegante lirismo sudamericano di Chiquilìn de Bachìn (Astor Piazzolla). A partire da Pages (collage remixato di quattro diverse composizioni e sezioni improvvisate) la scaletta procede in modo ancor piu’ audace e disinvolto tra l’esotismo di Don’s Kora Song (Don Cherry) e la politimbrica irregolarita’ di A Fixed Goal (Ornette Coleman), tra il notturno sentimentalismo di Love, I’ve Found You (Connie Moore) e la colta introspezione cameristica di Liebensode del compositore austriaco Alban Berg. Lungi dall’accondiscendere ai cliche’ espressivi e agli algidi timbri della scuola scandinava, il pianismo di Stenson e’ caldo e avvolgente, ricco di pathos, poesia e fantasia, equilibrato nella sottolineatura dei silenzi e delle frasi improvvisative, nutrito da un’impostazione colta e classica che non stona con gli accenti della musica afroamericana e globale. Al suo fianco si staglia il suono corposo e fibrillante (nella cavata, sugli armonici e nei passaggi con l’archetto) dello storico contrabbassista Anders Jormin, mentre le accentazioni e le figurazioni ritmiche del nuovo batterista Jon F
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