Ou’ Sont Les Notes D’Antan?

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Si staglia, netto, fra gli album più immaginifici di questa annata jazzistica – non solo italiana – il nuovo lavoro discografico, recante il numero di catalogo STR 57916, di Dino Betti (li centellina, sono pochissimi, credo neanche una quindicina,  nella carriera pluridecennale di questo protagonista –  oggi ottantunenne, cruciale e sfuggente – del jazz di oggi ),  affascinante viaggio che trasporta l’ascoltatore in una giungla di suoni ora liquidi, aerei, sfuggenti, pulviscolari, ora  invece compatti, magmatici, densi, volumetrici. Un’orchestra la cui tavolozza di colori sbalordisce per ampiezza e misteriosita’ di miscugli cromatici (due indicazioni per tutte: il dialogo, nel brano che intitola l’album, tra l’arpa bardica di Vincenzo Zitiello e il flauto dello specialista Sandro Cerino; e quello tra vibrafono, arpa, violino e flicorno alla fine del disco), ma anche avvince per la forte caratterizzazione ritmica, sovrasta per la capacità di interazione, di ingressi, di propulsione. Da King Oliver ad Haendel, da Ellington a Gerswhin, da canti popolari ad autocitazioni, (ma io direi anche dal West Coast Jazz a Keith Tippett, da Woody Herman a Pastorius) quasi ogni secondo del generoso minutaggio di questo compact è uno sguardo a strapiombo sul futuro della musica, è gioiosa – a volte, direi quasi, festosa – sperimentazione, proprio in quanto è recupero di memoria; That muddy mirror è la rilettura di Sciur padrun da li beli braghi bianchi nel momento stesso in cui – direbbe Pessoa – non lo è.
È, cioè,  una superba composizione originale che di quel canto rievoca il significato storico, scava il nucleo emotivo (e così facendo conquista innovative posizioni, musicali e “politiche”). A sua volta complesso, che ha più  facce.
E lo fa con una verve, un cuore, un magistero di scrittura e di arrangiamento (un magistero sia chiaro, come dire? non esibito, invece fungente, che traspare…) i quali riappacificano col significato del jazz, nel senso che, qualunque esso sia,  questo e gli altri quattro brani di “Ou’ sont les notes d’antan?” danno il loro coraggioso contributo nell’esemplificarlo.
Scrittura, arrangiamento, certo.
Però un momento: che nascono già pensando a QUEL suono di QUELL’ uomo della SUA orchestra. Sonorità. Umanità. Improvvisazione degli assoli. Lo scarto d’essere irriducibile fra orchestra classica e jazz è questo. Dino come Duke, come Russell, come Nelson.
Mai poi come nell’ episodio discografico di cui stiamo parlando: notoriamente restio ai live, rarissime le  apparizioni della sua orchestra, di oltre venti elementi (non facciamo torto a nessuno degli splendidi protagonisti: citiamo l’intera formazione in calce)  in festival e rassegne, il direttore d’orchestra, compositore e produttore nato a Rapallo ha invece composto il materiale poi riversato su questo disco appositamente per l’esecuzione in concerto. Concretizzatasi poi praticamente quasi in un’unica data. E questo, francamente, è un peccataccio.

 

Musicisti:

Direttore: Dino Betti Van der Noot

Orchestra
Trombe e flicorni: Gianpiero LoBello, Alberto Mandarini, Mario Mariotti, Paolo De Ceglie
Tromboni: Luca Begonia, Stefano Calcagno, Enrico Allavena
Trombone basso: Gianfranco Marchesi
Flauti, clarinetto basso e sax alto: Sandro Cerino
Sax alto: Andrea Ciceri
Flauti e sax tenore: Giulio Visibelli
Sax tenore: Rudi Manzoli
Clarinetto e sax baritono: Gilberto Tarocco
Vibrafono: Luca Gusella
Violino: Emanuele Parrini
Pianoforte: Niccolò Cattaneo
Tastiere: Filippo Rinaldo
Arpa bardica: Vincenzo Zitello
Basso elettrico: Gianluca Alberti
Percussioni: Stefano Bertoli, Tiziano Tononi

 

Brani:

01. Où sont les notes d’antan?
02. That Muddy Mirror
03. Velvet Is the Sound of Drums-from Afar
04. The Paths of Wind
05. Threading the Dark-Eyed Night