Sticky Fingers (Super Deluxe Edition)

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Miracolo e spettacolo del rock, “Sticky Fingers” fu l’album “marziano” dei Rolling Stones, l’asso pigliatutto che condusse la band a superarsi con il successivo e ancor più monumentale “Exile On Main St.”. Gli eventi e le circostanze drammatiche che ne precedettero la genesi sono risaputi e sarebbero un plot perfetto per un biopic ricco d’azione e scene noir. Il 3 luglio 1969 veniva a mancare Brian Jones (trovato annegato nella piscina della sua dimora ad Hartfield) ma già pochi mesi più tardi (6 dicembre 1969) il gruppo dovette riannusare il fetido odore della morte nello storico concerto gratuito di Altamont, California, in cui oltre al diciottenne afroamericano Meredith Hunter (accoltellato a morte da un componente degli Hells Angels) si contarono i decessi accidentali di altre tre persone.

 

Ulteriore momento critico (occorso in tempi più ravvicinati alla gestazione dell’album) fu il drastico peggioramento dei rapporti con la Decca, casa discografica che pubblicava gli Stones sin dagli esordi ma a cui il gruppo non riusciva più a perdonare le immancabili beghe e censure su testi, titoli e scelte grafiche degli album. Il divorzio con la ABCKO del manager Allen Klein (che trafugò con l’inganno tutti i diritti legali delle canzoni composte dalla band prima del 1971) fu pertanto il segnale che condusse anche alla definitiva rottura con l’etichetta londinese (astutamente raggiunta dagli Stones con la richiesta, ovviamente negata, di pubblicare il singolo Cocksucker Blues) e alla creazione di un marchio discografico personale.

 

Sull’orlo di una clamorosa bancarotta e privi di ogni introito finanziario gli Stones incrociarono sulla loro strada Rupert Loewenstein, sagace banchiere e uomo d’affari che salvò dai debiti e dalla scure fiscale britannica il gruppo “esiliandolo” domiciliarmente in Provenza, nel sud della Francia. A partire da questo semplice stratagemma gli Stones sarebbero poi diventati i Re Mida del rock planetario, intascando e moltiplicando a dismisura i ricavati di ogni disco, concerto o evento mediatico che dal 1971 in avanti li avrebbe visti protagonisti. Così, mentre Keith Richards entrava e usciva da stazioni di polizia e aule di tribunali per questioni legate all’uso e possesso di stupefacenti, Mick Jagger trovava finalmente modo d’infilarsi nel jet set e darsi agli eventi mondani con la bella e sofisticata Bianca Perez Moreno de Macias, colei che di lì a poco gli avrebbe fatto dimenticare Marianne Faithfull e sarebbe diventata la sua prima moglie. Trovandosi con lei in vacanza a Nassau, Jagger ebbe modo di palesare le sue scaltre doti di faccendiere accordandosi con Ahmet Ertegun, storico boss della Atlantic, per una distribuzione esclusiva della Rolling Stones Records, neonata etichetta della band (creata nel 1970 e griffata dal leggendario logo “tongue-and-lips”) alla cui direzione era stato posto Marshall Chess, figlio del mitico Leonard che insieme al fratello Phil fondò e diresse a Chicago la gloriosa Chess Records.


 

Meno problematico fu il riassetto artistico che il gruppo seppe darsi all’alba degli anni Settanta. Mick Taylor, sopraffino chitarrista proveniente dai Bluesbreakers di John Mayall, era già semi-operativo come sostituto di Brian Jones dalle session di “Let It Bleed” (1969). La sua presentazione ufficiale avvenne nel concerto gratuito ad Hyde Park che gli Stones dovettero per forza di cose tramutare anche in un saluto alla memoria di Brian Jones venuto a mancare appena due giorni prima dell’evento. Riservato e concentrato sullo strumento, Taylor avrà modo di darci dentro e farsi apprezzare sul serio solo nel nuovo tour americano effettuato dagli Stones tra il novembre e il dicembre del 1969. Dai due concerti al Madison Square Garden di New York (che vide come ospiti di spalla calibri quali Ike & Tina Turner, BB King e Terry Reid) fu estratto il grosso della tracklist che nel settembre del 1970 andò a comporre il nuovo e ultimo album targato Decca della band, “Get Yer Ya-Ya’s Out!”, avvincente documento live che spodestò subito “Cosmos Factory” dei Creadence Clearwater Revival dal primo posto delle chart inglesi e che scalò fino al sesto di quelle americane.

 

In vetta alle classifiche anglosassoni per due anni di fila ma bastonati da legge e fisco, Jagger e soci misero così in atto il piano di salvataggio suggerito da Loewenstein. Fatto bottino con un trionfale tour inglese d’addio, lasciano in fretta la madrepatria e si stabiliscono in Francia. La registrazione e il missaggio finali di “Sticky Fingers” furono effettuati nel gennaio del 1971 nei londinesi Olympic e Trident Studios sotto la supervisione del produttore Jimmy Miller, ma di molti pezzi (Brown Sugar, Wild Horses, You Gotta Move, Sway, Bitch, Dead Flowers, Can’t You Hear Me Knocking) la band aveva già plasmato essenza e forma sin dal dicembre del 1969 fino a tutto il 1970 (avvalendosi dei Muscle Shoals in Alabama e dello studio mobile presso la Stargroves Manor House di Jagger nell’Hampshire), senza contare che Sister Morphine era già apparsa nel febbraio del ’69 come B-side del singolo “Something Better” intestato a Marianne Faithfull. Il 23 aprile (in Gran Bretagna) e il 1 maggio (negli States), Anno Domini 1971, “Sticky Fingers” compare finalmente sul mercato internazionale inaugurando la Rolling Stones Records e l’indisponente logo con la linguaccia rossa. Con esso termina pure la fastidiosa dicotomia tra discografia inglese e americana del gruppo, anche se va detto che la versione rilasciata in Spagna sostituì Sister Morphine con la cover di Let It Rock (Chuck Berry) e per ragioni di censura (imposte dall’allora governo franchista) fu accompagnata da una immagine di copertina del tutto diversa dall’originale.



 

Già, la cover art, una tra le più provocatorie, costose e celebri del rock, l’involucro grafico perfetto per illustrare lo spirito erotomane (e tossicomane) dell’album. Ideata e firmata da Andy Warhol, la copertina è un altro semplice, per quanto strabiliante, colpo di maestro. Uno scatto fotografico del bacino e del posteriore di un fotomodello della Factory con indosso un paio di jeans attillati tenuti da un cintura in pelle. Il davanti pone in risalto il pacco genitale maschile e la zip del desiderio, una cerniera lampo realmente autentica nella primissima tiratura “gatefold” del disco. Una volta aperta, la zip lasciava intravedere gli slip del fotomodello, ammirabili per intero nella medesima inquadratura interna che dava maggior rilievo alla “dotazione” del giovane. Tutti gli scatti furono realizzati da Billy Name, fotografo ufficiale della Factory, mentre anni più tardi si seppe che bacino e pacco appartenevano al modello d’origini italiane Joe Dallessadro, uno degli attori e figuranti più usati da Warhol nei suoi film e cortometraggi. Come già detto, in Spagna l’immagine fu ritenuta troppo scandalosa e venne rimpiazzata con quella di un barattolo aperto dal quale fuoriuscivano delle dita femminili immerse in una nera e densa melassa.

 

Tutto ciò che accadde prima e durante la gestazione dell’album vede ora la luce in questa Super Deluxe Edition, che celebra nel migliore dei modi l’apice di uno iatus creativo mai più espresso da Jagger e soci a cavallo di due decadi, vale a dire da Beggars Banquet del 1968 fino a It’s Only Rock And Roll del 1974. Nel box trovano posto 3 CD; un magnifico book con note e immagini anche inedite di 120 pagine (la cui copertina riproduce quella dell’album originale con la zip reale e funzionante); un DVD con la band in azione su due brani tratti da un favoloso concerto del marzo 1971 al Marquee di Londra; un poster, una stampa, alcune foto-cartoline e un vinile 7” con Brown Sugar e Wild Horses, ossia i primi due singoli estratti dall’album, rispettivamente il 16 aprile e il 12 giugno 1971 .


 

Nel primo CD le dieci tracce originali dell’album rifulgono attraverso una rimasterizzazione (la stessa effettuata nel 2009) che ne esalta appieno tutti i dettagli e le sfumature ritmico-armoniche. La voce di Jagger è ben mixata, chiara e ottima nello spettro volumetrico e ben incastonata nel flusso strumentale. Nessun brano soffre di eccessiva compressione e i segnali dei toni si stagliano ovunque corposi e rotondi, valorizzati dal buon contenimento dinamico (anche nei picchi più elevati) del sassofono di Bobby Keys e della tromba di Jim Price. Costoro sono appena due nomi di una squadra di collaboratori e ospiti tra le più consistenti che gli Stones abbiano mai impiegato per la registrazione di un disco. Musicisti tecnicamente ineccepibili quali Paul Buckmaster (arrangiamenti orchestrali), Ry Cooder, Eric Clapton, Al Kooper, Jim Dickinson, Rocky Dijon, Nicky Hopkins, Jack Nitzsche, Billy Preston e Ian Stewart si sono difatti avvicendati tra loro e affiancati al quintetto base per la realizzazione di tutte le versioni in studio che il box raccoglie e consente di ascoltare. Grazie a Brown Sugar l’avvio di “Sticky Fingers” è memorabile come pochi altri album nella storia del rock. Per la sua immediatezza e genialità il riff di chitarra introduttivo è ancora oggi secondo solo a quelli arcinoti ed eterni di (I Can’t Get No) Satisfaction e Honky Tonk Women. Il testo, scandaloso e provocatorio, condensa i temi e i messaggi sparsi nelle restanti canzoni, pertanto funge da ottimo manifesto dell’album e della “Way of Life” praticata dalla band all’alba dei Settanta: eccessi d’ogni tipo, violazione delle regole e oltraggio al comune senso del pudore. Stilisticamente è la perfetta incarnazione del rock che dismette le illusioni e i cardini della “Summer Of Love” e che torna a riconciliarsi con tutto ciò che proviene dalla cultura e dalle radici della black music: electric blues, soul, funk e barrelhouse. Qui, come altrove, Mick Jagger si trasforma in autentico sciamano dell’arroganza e della trasgressione, ma anche in uno spiritato troubadour volto a raccontare i lati più desolanti, tragici e decadenti che una tale condotta di vita può senza dubbio comportare. Sono da segnalare il baldanzoso accompagnamento al piano di Ian Stewart, la ruvidità flessuosa delle chitarre di Mick Taylor e Keith Richards e soprattutto il fantastico assolo di Bobby Keys, il cui sax appone all’intero brano un sigillo inconfondibile e imprescindibile. Subito dopo è la volta di Sway, pezzo dove ancora spicca l’interpretazione viscerale e struggente di Jagger, in linea con il virile allure “southern-blues” e il clima “soul” del motivo melodico, imperlato nell’epilogo da uno straordinario assolo “acid-blues” di Taylor che sfuma avvolto da sontuose trame orchestrali.

 

Terza traccia dell’album è Wild Horses, tra i massimi capolavori elettroacustici dell’intero repertorio degli Stones. Che sia stata scritta o meno avendo in mente la sua travagliata relazione con Marianne Faithfull, Jagger sfila attraverso la sua voce uno dei testi più accorati e ricchi di pathos di sempre. Non per niente Gram Parsons fece carte false per farsela prestare (e inciderla un anno prima degli artefici) nel suo album con i Flying Burrito Brothers “Burrito Deluxe” (1970). Altra super ballad, ma molto più tossica, è la “stupefacente” Sister Morphine, visionario manufatto country-folk-blues che vede sul piedistallo la slide guitar di Ry Cooder e lo spettrale piano in background di Jack Nitzsche. Tra i brani più articolati ed estesi troviamo poi Can’t You Hear Me Knocking, un riuscito blend di southern-rock, jazz e acid blues dove a far faville sono ancora Mick Taylor, Keith Richards e Bobby Keys, ma in cui possiamo anche ammirare l’esecuzione poliedrica e raffinata di Charlie Watts, Bill Preston (organo) e Rocky Dijon (congas). Giocata a dovere nella chiave e interpretazione spiritual-country-blues che ne diede Mississippi Fred McDowell è You Gotta Move, traditional che trova il suo fulcro nella slide guitar di Richards e nel cantato molto sudista di Jagger. Viceversa, e a dispetto di quanto possa far pensare il titolo, I Got The Blues è un languido numero “gospel-soul” che si misura con la gloriosa tradizione degli artisti di casa Stax. Un pezzo per nulla clamoroso ma forse necessario a rendere ancor più vario e “americano” il registro stilistico dell’album. In tale clima e tradizione entra alla grandissima il country-rock di Dead Flowers, altra ballad stratosferica che viaggia nella perfezione grazie al duetto vocale di Jagger e Richards e alla magnifica sei corde elettrica di Mick Taylor. L’ultima “slow song” è anche quella che chiude l’album, ossia Moonlight Mile. È un brano per niente lineare, che sperimenta con la narratività vocale di Jagger, variazioni elettroacustiche, accordi di piano e movimenti d’archi. Ricordando che alla registrazione non partecipò Richards (e che quindi le parti chitarra sono unicamente quelle di Mick Taylor) vale la pena sottolineare come gli Stones siano qui andati molto vicini all’intensità e allo stato dell’arte del Van Morrison di “Astral Weeks”. Pura energia rock sposata al groove del funk e al rhythm and blues, Bitch è invece tra gli “highlights” di “Sticky Fingers”. Il merito va sia al ficcante riff di Richards, sia agli arrangiamenti stile Motown dei fiati, per non dire poi del contrappunto roccioso e sincopato della sezione ritmica, dell’assolo di chitarra (quello del solito, inarrivabile, Mick Taylor) e della superba interpretazione di un Jagger mai così strafottente, adrenalinico, crudo e “nero” nel registro vocale.


 

Metafora rock per eccellenza di un eden creativo scaturito da una situazione in bilico tra perdizione e disperazione, “Sticky Fingers” avvalora sempre più il sospetto che gli Stones abbiano davvero fatto un patto con il diavolo per consegnarsi all’immortalità. Un sensazione tanto più vera quando ci si immerge nel materiale del secondo CD, quello che svela e regala ai fan altre meravigliose gemme musicali inedite e poi scartate quali la prima versione di Brown Sugar (più ruspante e american blues oriented) che vede ospiti le chitarre di Eric Clapton e Al Kooper, oppure le strabilianti e toccanti note di Wild Horses in chiave totalmente acustica. Interessanti anche le “alternate takes” di Dead Flowers e Can’t You Hear Me Knocking, versioni esteticamente più grezze e dirette, dove l’epica “southern rock-blues” prende letteralmente il sopravvento (ascoltate come Taylor e Richards dialogano e si danno botta e risposta nell’ultima delle due). Ancora più da infarto Bitch in una sensazionale “extended version”, che a dispetto del taglio improvviso procura due minuti in più di piacere e orgasmo sull’onda delle jam inverosimili che all’epoca gli Stones scatenavano dal vivo. Non sarà mai troppo dire e ricordare che proprio nei concerti la band dava il meglio di sé esaltando il lato più ruvido e bluesy del proprio sound. Nella prima metà degli anni Settanta gli Stones erano (insieme ai Led Zeppelin) il miglior “live act” disponibile sulla scena rock internazionale. Un gruppo ispirato, compatto e delinquente come pochi, in grado di metter in campo la miglior line-up (dopo quella primitiva e originale) e vantare una chitarra solista (quella del riservato e superconcentrato Mick Taylor) tecnicamente superba, fantasiosa e indovinata per il cambio di rotta estetico intrapreso. Certo la macchina sarebbe apparsa più oliata e rodata nell’American Tour del 1972 e nell’European Tour del 1973 ma già la fase di riscaldamente, ossia la dozzina di concerti dati sul suolo patrio prima dell’esilio, lasciava intravedere la grinta, il divertimento e la forma smagliante che la band avrebbe elargito nell’immediato. A testimoniarlo sono proprio le ultimissime date e apparizioni dal vivo effettuate durante il “Farewell Tour” del 1971, qui documentate nei due dischetti “extra” del box. Nel secondo CD vi sono, infatti, cinque brani tratti dal doppio show del 14 marzo al Roundhouse di Londra mentre nel terzo si può ascoltare l’intera scaletta eseguita il giorno prima (13 marzo 1971) a Leeds presso la locale università. La formazione in scena su entrambi i palchi vedeva schierati Mick Jagger (voce, armonica), Keith Richards (chitarra ritmica e solista), Mick Taylor (chitarra solista), Bill Wyman (basso), Charlie Watts (batteria), Nicky Hopkins (piano), Jim Price (tromba) e Bobby Keys (sax). Nel repertorio (che gode di un’ottima resa audio) si alternano vecchi e nuovi cavalli di battaglia (Satisfaction, Jumpin’ Jack Flash, Love In A Vain, Honky Tonk Women, Live With Me, Stray Cat Blues, Let It Rock, Little Quenie, Street Fighting Man), due impressionanti elaborazioni di Midnight Rambler (dilatata, in quel di Leeds, fino a tredici minuti) e i primi convincenti assaggi di Dead Flowers, Bitch e Brown Sugar. Insomma, i Rolling Stones più blasfemi e incendiari di sempre, colti in flagrante ad iniettare una colossale “overdose” di blues nelle vene del rock.

 

 

Voto: 10/10

Genere: Rock / Blues / Soul-Funk / Country-Folk

 

 

Musicisti:

Mick Jagger – vocals, harmonica, percussion, acoustic guitar

Keith Richards – electric guitar, acoustic guitar, backing vocals

Mick Taylor – electric guitar, acoustic guitar, slide guitar

Bill Wyman – bass guitar, electric piano #5

Charlie Watts – drums

Paul Buckmaster – string arrangements #2, #10

Ry Cooder – slide guitar #8

Jim Dickinson – piano #3

Rocky Dijon – congas #4

Nicky Hopkins – piano #2, #4

Bobby Keys – saxophone #1, #4, #6, #7

Jimmy Miller – percussion #4

Jack Nitzsche – piano #8

Billy Preston – organ #4, #7

Jim Price – trumpet #6, #7, piano #10

Ian Stewart – piano #1, #9

 

 

Brani:

CD 1

01. Brown Sugar

02. Sway

03. Wild Horses

04. Can’t You Hear Me Knocking

05. You Gotta Move

06. Bitch

07. I Got The Blues

08. Sister Morphine

09. Dead Flowers

10. Moonlight Mile

 

CD 2

01. Brown Sugar (Alternate Version with Eric Clapton and Al Kooper)

02. Wild Horses (Acoustic Version)

03. Can’t You Hear Me Knocking (Alternate Version)

04. Bitch (Extended Version)

05. Dead Flowers (Alternate Version)

06. Live With Me (Live At The Roundhouse, 1971)

07. Stray Cat Blues (Live At The Roundhouse, 1971)

08. Love In Vain (Live At The Roundhouse, 1971)

09. Midnight Rambler (Live At The Roundhouse, 1971)

10. Honky Tonk Women (Live The Roundhouse, 1971)

 

CD 3

01. Jumpin Jack Flash (Live At Leeds University, 1971)

02. Live With Me (Live At Leeds University, 1971)

03. Dead Flowers (Live At Leeds University, 1971)

04. Stray Cat Blues (Live At Leeds University, 1971)

05. Love In Vain (Live At Leeds University, 1971)

06. Midnight Rambler (Live At Leeds University, 1971)

07. Bitch (Live At Leeds University, 1971)

08. Honky Tonk Women (Live At Leeds University, 1971)

09. (I Can’t Get No) Satisfaction (Live At Leeds University, 1971)

10. Little Queenie (Live At Leeds University, 1971)

11. Brown Sugar (Live At Leeds University, 1971)

12. Street Fighting Man (Live At Leeds University, 1971)

13. Let It Rock (Live At Leeds University, 1971)

 

DVD

01. Midnight Rambler (Live At The Marquee, 1971)

02. Bitch (Live At The Marquee, 1971)

 

 

Links:

The Rolling Stones