What’s Up! Volume 1

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    WHAT’S UP! Una nuova rubrica il cui scopo primario è quello di fronteggiare e scandagliare con tempismo e succinta analisi critica l’incessante flusso delle produzioni e uscite discografiche, commerciali o alternative che siano. Nell’era di Spotify, BitTorrent, I-Tunes, Bandcamp, YouTube, Rate Your Music e Last.fm il tracollo e lo smarrimento da parte dei critici e dei fruitori di musica (anche di quelli più appassionati, competenti e maniacali) sono evidenti ma non del tutto insostenibili.

     

    Vero è che galleggiamo in equilibrio precario su un oceano di produzioni musicali dei generi più disparati, ed è proprio dentro la rete che oggi l’underground adesca e trova meglio le sue prede confondendone, però, sempre più i gusti e le idee. Al tempo stesso il supporto liquido e le piattaforme P2P (atte al file sharing e al downloading clandestini) hanno riprosto e diffuso titoli e artisti del passato prima solo goduti dai collezionisti, ristampe ed edizioni speciali spesso infarcite di materiali inediti. Poi ci sono le novità, gli album e le singole tracce, le registrazioni private e quelle dal vivo non ufficiali, miliardi di brani da parte di milioni artisti.

     

    Sussiste però la questione di come gestire l’ascolto di questa infinita quantità di uscite disponibili e discriminare al suo interno il pattume e il semplice copia-incolla dall’originalità. In altre parole è la questione del tempo, quello libero e prezioso, che non dovremmo mai sciupare. Per chi fa critica musicale affrontare e risolvere il problema dell’inflazione discografica dovrebbe anche significare organizzare nel migliore dei modi il tempo deputato all’ascolto per salvaguardare una propria onestà e obiettività intellettuali.

     

    Paradossalmente è in auto, mentre raggiungo e poi abbandono il luogo di lavoro, che mi capita di avere maggiore confidenza e trascorrere più tempo con un CD. Per il resto, vuoi per la marea di dischi che arrivano e si accumulano (causando anche non indifferenti problemi logistici casalinghi), vuoi perché più spesso e volentieri uno gli album e gli artisti preferisce andarseli a cercare e a scoprire per conto proprio, gli ascolti di gran parte di questi innumerevoli materiali si riducono ad un isterico e frustrante mordi e fuggi, e a conseguenti operazioni di giudizio (positivo o negativo) che rischiano d’essere fuorvianti o sommarie. La verità è che per dedicare ad ognuno di questi prodotti il tempo che merita, oggi non basterebbero neanche tre vite intere. Ed è proprio il rapporto tra questi due termini (il necessario tempo d’ascolto e la quantità di produzioni che lo si esigerebbero) ciò che manda in tilt il sottoscritto. A ciò aggiungerei anche un’altra sensazione di disagio, provocata dall’esiguo tempo che resta per recensire, apprestare articoli e interviste. Essendo prima di tutto un appassionato ho sempre dato precedenza all’ascolto e al lavoro di scavo, salvo poi accorgermi che il tempo impiegato per questi processi riduceva progressivamente quello disponibile per buttare giù articoli e recensioni soddisfacenti.

     

    WHAT’S UP! cercherà d’essere anche la cura e la soluzione a tali problemi, una corda per tirarmi su da queste sabbie mobili e rendermi più agevole la missione di presentare e recensire su Sound Contest i dischi appena usciti o usciti di recente. Data la quantità dei titoli che confluiranno in ogni numero della rubrica (da un minimo di dieci ad un massimo di quindici), le recensioni saranno necessariamente brevi ed essenziali ma nulla toglie che, in un secondo momento, qualcuna tra esse possa essere ripescata e riproposta singolarmente in un versione più estesa e generosa di dettagli. Nella speranza che diventi un appuntamento guida e di riferimento su Sound Contest, WHAT’S UP! darà ragionevole spazio e giustizia anche ad ogni genere musicale, ad artisti italiani e internazionali, recuperando, all’occorrenza, diversi titoli meritevoli pubblicati l’anno appena precedente. Detto ciò, LET THE MUSIC GO!

     

     

    Savage Republic - Aegean
    Savage Republic – Aegean

    SAVAGE REPUBLIC: Aegean

    Mobilization Records, 2014

    Voto: 7,5/10

     

    Motivati e immarcescibili i Savage Republic giungono al loro decimo album ufficiale in trentadue anni di onorata carriera. “Aegean” si mantiene già con l’esplicito titolo sul sentiero tracciato dal precedente “Varvakios” (2012), un affondo nell’immaginario e nella cultura d’impronta ellenica che lambisce l’intero bacino mediterraneo e getta un ponte anche oltreoceano. Interamente realizzato in California, il disco propone di nuovo il violino di Blaine L. Reininger in un paio di tracce, mentre ottoni e strumenti a corda tradizionali quali oud e dumbek caratterizzano molte delle numerose composizioni strumentali. Climi epici e marziali (Victory, Omonia), mesmerici mantra mediorientali (Arci Kroen, The Arab Spring), ruvidi e coriacei crescendo di chitarra elettrica puntellati da incisive e possenti trame percussive (Sons And Lovers, Peloponnesia) dicono di una band ancora unica e in splendida forma, per nulla cristallizzata nel verbo “trance-desert rock” di cui è stata profeta.

     

     

    The Black Keys - Turn Blue
    The Black Keys – Turn Blue

    THE BLACK KEYS: Turn Blue

    Nonesuch Records, 2014

    Voto: 7/10

     

    La mutazione estetica del duo rock più “cool” degli ultimi anni prosegue e continua a spiazzare album dopo album. Se avessero ripetuto il miracolo di “El Camino” (2011) Dan Aurbach e Patrick Carney sarebbero stati dei padreterni. Purtroppo “Turn Blue” non possiede l’immediatezza e la visceralità del suo pluridecorato e acclamato predecessore. Primo, perché l’appeal di queste nuove undici tracce (quando c’è, come nel caso del singolo Fever e di altri brani quali Weight Of Love – coraggioso numero acid-soul-pop in cui sembra annidarsi finanche l’ombra dei francesi Air – Year In Review, In Time, 10 Lovers e It’s Up You) matura e cresce a fuoco lento, con la forzata confidenza dei ripetuti ascolti. Secondo, perché è un disco di molti (e forse troppi) contrasti, un diplomatico compromesso per accostare o far convivere nel medesimo brano garage-blues, electro-pop, psichedelia e soul d’antan. La bravura c’è e non si discute ma lo sbilanciamento in fase creativa e l’eccessiva raffinatezza della produzione zavorrano troppo l’intera operazione, concedendo solo a tratti l’impressione di volare ad alta quota.

     

     

    Arto Lindsay - Encyclopedia Of Arto
    Arto Lindsay – Encyclopedia Of Arto

    ARTO LINDSAY: Encyclopedia Of Arto

    Ponderosa Music And Art / Northern Spy Records, 2014

    Voto: 8,5/10

     

    Caustico, schizofrenico, ricercato, sensuale e globale sono solo alcuni dei tanti attributi che aiutano a definire il poliedrico universo musicale e la gittata espressiva di Arto Lindsay, l’americano naturalizzato brasiliano, l’anarcoide sperimentatore che con il suo epilettico e pungente stile chitarristico, oscillante tra il dissonante, il cacofonico e l’atonale, ha cavalcato l’onda breve della No Wave newyorkese insieme ai leggendari DNA per poi segnare il suono Downtown più meticcio e “fake jazz” insieme ai Lounge Lizards di John Lurie e ai Golden Palominos di Anton Fier, senza infine dimenticare il pruriginoso e mutante “art rock” configurato nell’ambito del progetto Ambitious Lovers. “Encyclopedia Of Arto” racconta però la seconda e ancor più stupefacente carriera artistica di Lindsay, quella “adulta” dei fantastici e avventurosi album solisti con cui dal 1995 al 2004 è riuscito nell’impresa di mescolare avant rock, bossanova, pagoda e ritmi carioca, elettronica intelligente e cantautorato pop in un discorso musicale avvincente, collocato nello spazio di una zona franca appositamente codificata. Un doppio antologico delle meraviglie, riassuntivo delle molteplici anime e frequentazioni del Nostro, con l’implicita presenza di illustri ospiti e compagni di viaggio (tra cui Caetano Veloso, Naná Vasconcelos, Ryuichi Sakamoto, Melvin Gibbs, Vinicius Cantuaria, Marisa Monte, Amedeo Pace, Peter Scherer e Andrés Levin). Tutto ciò nella selezione dei brani che compongono il primo CD mentre nel secondo è possibile gustare un’inedita performance dal vivo del 2012 per sola chitarra elettrica e voce, con ulteriori pezzi del medesimo periodo e alcune cover d’eccezione quali Erotic City (Prince), Simply Beautiful (Al Green) e Estação Derradeira (Chico Buarque). Vietato ignorarlo e farne a meno.

     

     

    Coldplay - Ghost Stories
    Coldplay – Ghost Stories

    COLDPLAY: Ghost Stories

    Parlophone Records, 2014

    Voto: 4/10

     

    Il nuovo album dei Coldplay è il riflesso, neanche tanto difficile da intuire, dei recenti dissidi e travagli privati occorsi a Chris Martin all’indomani della separazione dalla moglie, la note attrice britannica Gwyneth Paltrow. “Ghost Stories” sembra infatti esorcizzare fin dal titolo certi fantasmi immaginari e reali del passato del leader con una nutrita serie di composizioni afflitte da ritmi pacati e climi introspettivi, affreschi atmosferici in cui elettronica ed effetti digitali si sostituiscono al vibrante ed iridescente chitarrismo elettrico che aveva segnato, nel bene e nel male, gli hit e gli album più di successo della band. Già il precedente “Mylo Xyloto” era riuscito a piacere e a convincere solo per metà del materiale che conteneva. Questo fa ancora peggio, perché a voler esser buoni a galla restano solo Magic e A Sky Full Of Stars, l’unica botta di vita (nonostante l’insulsa impalcatura disco-pop su cui fa leva) in un tragico naufragio di ebete malinconia e patinata apatia.

     

     

    Many Arms - Suspended Definition
    Many Arms – Suspended Definition

    MANY ARMS: Suspended Definition

    Tzadik Records, 2014

    Voto: 5,5/10

     

    Dunque, cosa abbiamo qui? Una squassante e acidomuriatica prova atletica per chitarra-basso-sax-batteria. Ma sì, avete indovinato. Si tratta di free jazz allungato a dovere con due quarti di hardcore-punk, uno di math-noise e la restante parte “on the rocks” aromatizzata con uno spruzzo di armonia. Con “Suspended Definition” i Many Arms mutano da trio a quartetto, cercando di variare la ricetta del cocktail con l’imbarco a bordo del sassofonista canadese Colin Fisher. La bibita però non disseta né placa l’intimo desiderio di uno sballo sensorialmente esteso e profondo. Cose del genere sono state già assaggiate e ingurgitate con ben altri effetti e risultati. Un consiglio. Fatevi il cocktail da soli, la lista degli ingredienti forse l’avete già interamente disponibile in casa. Prendete Black Flag, Naked City, Albert Ayler, The Thing, Zu, Pharoah Sanders e Ruins, miscelate a piacere, in parti uguali o diseguali, sorseggiate e lasciate agire per qualche minuto. Vedrete che differenza!

     

     

    Chris Robinson Brotherhood - Phosphorescent Harvest
    Chris Robinson Brotherhood – Phosphorescent Harvest

    CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD: Phosphorescent Harvest

    Silver Arrows Records, 2014

    Voto: 7,5/10

     

    Che i losangeleni Chris Robinson Brotherhood siano una faccenda seria e non un semplice side-project allestito dal vocalist e fondatore dei formidabili Black Crowes lo testimonia il fatto che “Phosphorescent Harvest” è già il terzo album pubblicato in appena due anni di attività. Musicalmente il discorso non si discosta molto dal gruppo madre del leader. L’impalcatura e la base di partenza sono sempre quelle del più classico american blues rock anni ’60 e ’70, finemente alterato da nubi psichedeliche e da colori pop che a loro volta catalizzano quanto di meglio hanno da offrire la storia e il ricco patrimonio del country, del southern rock, del folk e del funky-gospel-soul. Undici tracce che tra ondulanti chitarre elettriche, steel guitar, rotonde linee di tastiere ed organo Hammond prendono ora le fattezze di brani duri, frizzanti e grintosi (tra cui l’ottima Shore Power, Beggar’s Moon, Badlands Here We Come, e la sorprendente Just The Turnstile), ora quelle di “vagabond ballad” e “torch song” disperatamente romantiche (About A Stranger, Tornado e Wanderer’s Lament). Tutto è curato nei minimi dettagli, suonato come si comanda e indirizzato verso un groove e una visceralità d’altri tempi che omaggia e chiama in causa il periodo d’oro di Allman Brothers Band, Rolling Stones, The Band, Canned Heat, Faces e Free. Se siete tra quelli che vanno in cerca di solide certezze e non hanno troppe pretese allora l’inimitabile voce e la ritrovata ispirazione di Chris Robinson non vi deluderanno.

     

     

    Buzzcocks - The Way
    Buzzcocks – The Way

    BUZZCOCKS: The Way

    Pledge Music, 2014

    Voto: 7/10

     

    To’, guarda un po’ chi si rivede e si risente in giro. Nientemeno che i mitici Buzzcocks di Pete Shelley e Steve Diggle, unici superstiti della formazione originale che già nel 1977 vedeva l’abbandono dell’altro co-fondatore Howard Devoto. Realizzato grazie ad una campagna di crowdfunding lanciata su PledgeMusic “The Way” arriva a otto anni di distanza da “Flat Pack Philosophy” (2006), loro penultimo album in studio. Quella che abbiamo ricevuto e ascoltato è un’edizione liquida dell’album che oltre ai dieci brani ufficiali offre quattro bonus outtakes per un totale di quattordici originali e 51 minuti di musica nuovi di zecca. Unire lo spirito ribelle del punk e l’impertinenza intellettuale della new wave alle ultime tendenze del pop-rock alternativo è una specialità in cui i Buzzcocks restano ancora indiscussi pionieri e maestri a distanza di anni. Virtually Real, Third Real, Out Of The Blue, Keep On Believing, Chasing Rainbows Modern Times e Generation Suicide sono arrembanti esercizi ricolmi di grezza esuberanza elettrica, spettinati da melodie e chorus in cui pulsa indistruttibile l’incantesimo di ficcarsi nella testa in modo diretto e travolgente. Applausi.

     

     

    Russ Johnson - Meeting Point
    Russ Johnson – Meeting Point

    RUSS JOHNSON: Meeting Point

    Relay Records, 2014

    Voto: 7,5/10

     

    Russ Johnson è un giovane trombettista del Wisconsin, cresciuto e maturato professionalmente a New York ma attualmente attivo tra Milwaukee (dove insegna) e Chicago. Nel suo palmares vanta esperienze dal vivo, incisioni e collaborazioni con Lee Konitz, Bill Frisell, Myra Melford, Jon Irabagon, Steve Swallow, Elvis Costello e Marc Ribot, tanto per citarne alcuni, mentre più recentemente lo si è potuto apprezzare dal vivo anche in Italia, in occasione dell’ultimo Bergamo Jazz Festival, al fianco di Ken Vandermark, Fred Lonberg-Holm e Tim Daisy. Proprio per la Relay Records di quest’ultimo esce ora “Meeting Point“, disco che lancia il suo nuovo progetto in quartetto con musicisti di spicco della scena “avant jazz” chicagoana quali Jason Stein (clarinetto basso), Anton Hatwich (contrabbasso) e ovviamente il patron dell’etichetta, il fenomenale batterista Timothy Daisy. La registrazione propone dieci composizioni originali (di cui tre individualmente firmate dai restanti elementi del gruppo) che spingono sul linguaggio del post-bop come siamo assuefatti a sentirlo rivoltato e trasfigurato dai musicisti di quelle parti, ma con la differenza di una strategia d’approccio che vede il leader sperimentare in vari format ridotti (solo per tromba, duo per tromba-clarinetto basso e trio per tromba-clarinetto basso, batteria) la valenza (anche introspettiva e improvvisativa) di un set tecnicamente ineccepibile, dove allo swing ritmicamente e liricamente aperto di Litosphere e al “free” scoppiettante di Chaos Theory si contrappongono le tre sezioni timbricamente più astratte di Confluence e l’estesa elecubrazione in chiave di ballad della finale Half Full. Disco e formazione da tenere d’occhio.

     

     

    Ambrose Akinmusire - The Imagined Savior Is Far Easier To Paint
    Ambrose Akinmusire – The Imagined Savior Is Far Easier To Paint

    AMBROSE AKINMUSIRE: The Imagined Savior Is Far Easier To Paint

    Blue Note Records, 2014

    Voto: 5/10

     

    Ecco uno di quei dischi e casi dove talento e fantasia si annientano in un reciproco gioco al massacro. “The Imagined Savior Is Far Easier To Paint” è il terzo album da leader di una delle giovani stelle della tromba jazz statunitense più acclamate di recente, forse più efficace e brillante quando opera in qualità di sideman che come regista e compositore. Pretenzioso e cerebrale sin dal lungo titolo, quest’album fallisce la sua presa sull’ascoltatore dal primo all’ultimo dei suoi tredici brani, appesantiti da un gioco d’intarsio nell’arrangiamento e da uno spettro stilisticamente ampio (post-bop, chamber music, orchestral e vocal jazz) ma infelice per la costante ricerca di una raffinatezza d’insieme condotta su binari ritmici poco propulsivi e temi armonici esageratamente articolati, spesso accavallati, troncati o variati e pertanto per nulla immediati. Detto di una scrittura non fluida, solo ideale per esercizi collettivi ed individuali di bravura tecnica, la cosa peggiore è che quando entra in azione la tromba di Akinmusire sembra quasi divertirsi in modo sardonico ad uccidere il groove di quanto di bello e piacevole la squadra dei partner (che oltre al suo quintetto base comprende le voci di Becca Stevens, Cold Specks e Theo Bleckmann, gli strumenti ad arco dell’OSSO String Quartet e il chitarrista Charles Altura) tentava di mettere in piedi. In conclusione, un’occasione sprecata, o meglio, una fantozziana corazzata Potionkin del jazz per settantotto minuti di fuffa che molti altri cercheranno di vendervi come i migliori mai ascoltati quest’anno.

     

     

    Dario Carnovale - Emersion
    Dario Carnovale – Emersion

    DARIO CARNOVALE: Emersion

    Auand Records, 2014

    Voto: 8/10

     

    Come poche altre piccole etichette di casa nostra, Auand non demorde e continua costantemente a puntare sul capitale umano più giovane e valido, tentando sia di mantenere certi ponti con la tradizione sia di fiutare l’aria fresca che musicalmente tira e si respira oltre i patrii confini. “Emersion” è la quarta uscita discografica del pianista e compositore siciliano Dario Carnovale, qui con un nuovo progetto in quartetto che oltre ai due membri del suo collaudato trio (il contrabbassista Simone Serafini e il batterista Luca Colussi) schiera la duttile verve dell’infallibile tenorista Francesco Bearzatti. L’opera, registrata da Stefano Amerio presso gli studi Artesuono, si configura in primo luogo come una suite eponima in tre movimenti ispirati alla figura e alla lezione di Dewey Redman. Nel primo e nel secondo dei tre già si evince la solidità e la potenza di una scrittura fresca e immaginifica, che sa osare nei toni e nei tempi forti, vigorosa, urgente ma melodicamente riconoscibile. Bearzatti e Carnovale dilagano imperiosi e nervosi ma la sezione ritmica (che sembra quasi animata da un furore rock) non è da meno è questo pezzo basterebbe da solo a fare grande il disco. Poi però, avulsi dall’omaggio, troviamo anche Shema e Ornette nel loro dionisiaco slancio fatto di belle scale “free” e “post-bop”, due brani improvvisativamente esplosivi e liricamente spettacolari. Il pianismo di Carnovale è percussivamente su di giri (tra l’altro il musicista ha iniziato con studi di batteria all’età di tre anni), efficace nel suo bivalente registro classico e contemporaneo, discorsivo e mai prolisso, soprattutto capace di attrarre a sé, con naturalezza, tutta l’attenzione che davvero merita.

     

     

    Enrico Pieranunzi - The Day After The Silence
    Enrico Pieranunzi – The Day After The Silence

    ENRICO PIERANUNZI: The Day After The Silence

    Alfa Music, 2014 [Ristampa]

    Voto: 7,5/10

     

    Al jazz Enrico Pieranunzi si è accostato giovanissimo, sin dagli anni Settanta, in parte attraverso la passione trasmessagli dal padre, senza comunque dimenticare le radici che risiedono in una formazione pianistica rigorosamente classica, provenienza che a tutt’oggi contraddistingue il suo stile e il suo linguaggio musicale nel tocco e nella raffinatezza armonica. Ripubblicato alcuni mesi fa, con copertina diversa dall’originale, è proprio un album del 1976, “The Day After The Silence”, registrazione per piano solo che inaugura la serie “Enrico Pieranunzi The Early Years” curata e pubblicata dall’etichetta Alfa Music. Un disco che a distanza di quarant’anni rivela ancora una straordinaria freschezza stilistica ed attualità espressiva, veicolate attraverso un repertorio di dieci brani originali in cui si fanno largo fantasia, lirismo ma anche tanta energia. Il pianismo agile e preciso di Pieranunzi regge un virtuosismo già spettacolare, alimentato da una conoscenza enciclopedica della musica accademica e afroamericana capace di far convivere senza forzature registri blues e venature minimal-folk, esperimenti tra ballad e valzer e temi improntati all’influenza di modelli e linee di pensiero all’epoca imperanti come quelli di Lennie Tristano, Chick Corea e McCoy Tyner.

     

     

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