TIME IN JAZZ: l’armolodia di Ornette Coleman nella notte d’agosto berchiddese

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Sono 23 ma non li dimostra…


Time in Jazz resta piu’ giovane che mai: esattamente come il suono del sax del musicista texano, splendido ottantenne nella notte del 12 agosto in piazza del Popolo. Era lui il piu’ atteso, il padre del free jazz, con un progetto eseguito ad hoc per il tema del festival (l’Aria, che ha chiuso la trilogia ideata da Fresu). Si e’ presentato sul palco in quartetto con Al MacDowell al basso elettrico, Tony Falanga al contrabbasso e con il figlio, Denardo Coleman, alla batteria. E il free jazz, o Armolodia, come lo stesso Ornette Coleman amava chiamare la sua creatura, perche’ affrancata dalle convenzioni dominanti di armonia, ritmo e melodia, ha lasciato tutti a bocca aperta per potenza e capacita’ di esecuzione. Una magia che ha ricordato John Coltrane e Cecil Taylor, gli altri padri putativi del free jazz. Coleman ha suonato instancabile il suo sassofono, sempre in parallelo con la sua band, che a dirla tutta non gli ha dato un apporto cosi’ determinante. Ma il concerto non ha sofferto di questi contributi mancati e la sua musica bizzarra e nervosa si e’ riproposta come per incanto. Manca un pianoforte, ma non se ne sente l’assenza. I suoi virtuosismi o le possibili sperimentazioni non sono pane per il texano, che tira dietro sempre alla sua antica idea, vaga ma precisa dal punto di vista sonoro. Entra in gioco la sua armolodia, con parallelismi musicali, passaggi che tengono in sospeso note e poi si chiudono bruscamente. Non ci sono forme ampie (che lui comunque aveva gia’ sperimentato con “Skies of America”), e’ ben poco “classico”, non sempre facile, ma viene apprezzato, anche nella notte berchiddese, persino da un pubblico popolare.


Il giorno dopo e’ stata la volta di Ralph Towner, eclettico chitarrista che gia’ il giorno prima aveva deliziato i palati fini nel magico scenario del parco eolico di Tula, in mezzo a 65 gigantesche pale, che bene hanno reso l’idea teorica del tema del festival. Con Towner, Fresu alla tromba in un crescendo di giochi, gia’ sapientemente messi in mostra nell’album “ChiaroScuro”, composto per la prestigiosa ECM. Dolcezza su dolcezza per un sinuoso mix di jazz e sonorita’ etniche, fatto di poesia, intensita’, magici pieni e vuoti.


A seguire la “grande aria” funk-free-jazz, “big air”, appunto, dell’energico quintetto anglo-americano guidato dal trombettista Chris Batchelor (ex Loose Tubes) e dal sassofonista Steve Buckley, due inglesi che davvero “spaccano” insieme a una potente tuba, un piano fantasioso e a una vulcanica batteria. Gli altri sono Myra Melford al piano, Oren Marshall al basso tuba e Jim Black alla batteria.


Il 14 agosto tocca a Enrico Rava con il suo quintetto, featuring quel “mattacchione” di Gianluca Petrella, di mestiere trombonista. I due big sono accompagnati da Giovanni Guidi al pianoforte, Pietro Leveratto al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria. Il concerto non sara’ di quelli da rimanere a bocca aperta: bello ma composto, “normale” con un altrettanto “normalizzato” Petrella, il quale invece aveva mostrato grandi numeri in duo semi-acustico sempre con Rava sul sagrato della chiesetta di San Bachisio nell’antipasto del giorno prima. In quell’ occasione Rava era rimasto piu’ compito, le sue improvvisazioni piu’ classiche, che mal si fondevano con le sperimentazioni del giovane collega, piu’ a suo agio con Fresu. E sono proprio queste situazioni giu’ dal palco, quelle immerse nella natura, tra gli olivastri, nello spiazzo di una chiesa, sul monte Limbara, all’alba o in riva ad un fiume al tramonto, sono queste location particolari a cui Fresu ci ha abituati, a rendere Time in Jazz unico. Sono le piu’ calde, quelle in cui i musicisti sono li’ a pochi metri da te, li senti respirare tra una nota e l’altra, vedi le gocce di sudore sulla pelle, li puoi incontrare, spesso, dopo il concerto e salutare e ringraziare in modo assolutamente free.


Dopo Rava arriva un duo eccezionale: Maria Joao e Mario Laginha, amore al primo ascolto. Voce multiforme e note gravi e acute che si rincorrono, abilita’ “scat” incredibile, il tutto giocando con portoghese, inglese, francese, giapponese, ora gioiosa, ora ironica, dalle movenze inattese, spiazzanti, accompagnata da Laginha grande, grandissimo pianista (e compositore) al suo fianco.


Ultima notte con il tunisino Dhafer Youssef, virtuoso dell’oud (il liuto arabo) e cantante dalla straordinaria estensione vocale, una delle figure piu’ interessanti della recente scena musicale, capace di mescolare la tradizione musicale Sufi con idee e influenze di ogni altro genere, soprattutto con il jazz. Con lui il suo quartetto acustico, con Chris Jennings al contrabbasso, Mark Guiliana alla batteria e Tigran Hamasyan, giovanissimo (classe 1987) e assai promettente pianista armeno. Un concerto incantevole, che ben si fonde con la pace dei luoghi ai piedi del Limbara, tra echi Sufi e note di un pianoforte jazz, in parallelo con la melodia del deserto. Festa finale con GirodiBanda per l’occasione in formato “allargato”, con i suoi diciotto elementi, affiancati stavolta dal gruppo Opa Cupa, ennesima brass band chiamata da Fresu per incantare giovani e meno giovani, prima tra le stradine del paese gallurese, poi sul palco di piazza del Popolo.

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