Il western digitale di oggi

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Digitale lo è, e anche da molti punti di vista… anche se il backline e quel gusto scenico ed esecutivo di presentare e scrivere la musica è tutt’altro che figlio dei giorni nostri. Da Livorno si arriva dritti nel vecchio West da copertina con la musica di Stella Burns che per l’occasione celebra suoi personalissimi ascolti con i suoi fedelissimi The Lonesome Rabbits. Con loro mette su un album di cover rivisti e tradotti in una chiave country western come suo solito che per molte parti si rende didascalica e decisamente coerente allo stile e in rarissimi casi cerca anche un lieve accenno di trasgressione di stile. Si intitola “Jukebox Songs” e per quanto – come detto – sia omogeneo e fedele alla linea, altrettanta coerenza non si può certo dire della scelta di questi 10 brani scelti… assolutamente imprevedibili. Non penso esista una compilation di hit e di perle ricercate in cui convivono assieme artisti come Leonard Cohen e Mino Reitano. Eppure la magia di Stella Burns è capace anche di questo…

 

 

 

Un disco Western, un disco italiano, un disco internazionale. Dal country attraversando sfumature che riconducono anche a gran parte della nuova scena indie. Insomma, dovendo definire meglio questo “Jukebox Songs” cosa possiamo dire?

“Jukebox Songs” nasce dal desiderio comune, mio e dei Lonesome Rabbits, di prendere alcune tra le canzoni alle quali siamo legati, e renderle nostre. Pubblicare un disco contenente sia i Radiohead che Reitano non credo sia mai stato fatto. D’altra parte alcune delle nostre influenze sono quelle. Abbiamo cercato di fare un disco che ci rappresentasse e al tempo stesso fosse un omaggio. E’ vero quindi che dentro c’è un po’ tutto di quello che nomini, eccetto la nuova scena indie.

A dirti la verità non sentiamo di farne parte in alcun modo. Né musicalmente né per attitudine a meno che tu non ti riferisca a certi nomi che stimo molto come Sacri Cuori, Dead cat in a bag e Opez tanto per citarne qualcuno.

 

Mi incuriosisce come si possa essere così tanto contaminati di Western – e di un modello anche abbastanza purista – oggi che siamo totalmente immersi in un mondo digitale…

Interessante che tu mi veda puramente western. E’ un elemento, certo quello più apparente. In realtà il western in senso stretto non è uno dei miei generi preferiti ma certi stilemi lo sono sicuramente, da Morricone in poi.

Con il digitale e con la grandissima disponibilità di qualsiasi tipo di musica, le distanze temporali tra gli stili si sono annullate e sembra quasi sia tutto sullo stesso piano. Io, come anche i miei musicisti, sono influenzato da moltissime cose. Anche piuttosto lontane fra loro. In questo momento abbiamo deciso di focalizzarci su certe sonorità perché in passato, in altri progetti, non lo avevo fatto come avrei voluto.

 

Come sei approdato ad una nuova scrittura e rivisitazione di questi brani celebri? In altre parole, i tuoi arrangiamenti hanno preso ispirazione dal brano originale oppure hai seguito una pista tutta tua a prescindere?

L’arrangiamento originale è stato un punto di partenza, abbiamo conservato le melodie e alcune atmosfere. E’ stato divertente e interessante però traghettare queste melodie nel nostro mondo. Questa cosa è piuttosto evidente in quei brani nati con un testo in italiano e che ho riscritto in inglese. La melodia del pezzo di Piero Ciampi, “While the dust gets up”, in inglese suona a metà tra John Lennon e Scott Walker. Il pezzo di Mino Reitano, “Key”, mantiene una sua natura intrinseca italiana e anche questo è interessante.

Dal tuo esordio a questo disco di “cover” la strada battuta sembra avere un carattere definito. Come a dire che hai trovato la tua collocazione artistica o esiste ancora la voglia di sperimentare nuove frontiere?

Stella Burns è nato con l’obiettivo di non avere troppi limiti di stile. In questo momento sto esplorando un certo filone ma sicuramente sperimenterò anche altre direzioni. Quando suonavo negli Hollowblue  la sensazione era che dovessimo riferirci a noi stessi e allo stile entro il quale avevamo deciso di muoverci. Essendo questo invece un progetto solista potrei pensare di fare domani un disco di musica elettronica o altro ancora. In questo momento sto bene dove sono, perché ancora c’è molto da esplorare. Poi vedremo.

 

Dunque, ad un purista come te chiediamo lumi e pareri sulla scena indie che imperversa al momento: creatività, fermento, omologazione o moda?

Come dicevo prima non mi sento parte di questa scena. Non mi interessa, non sento alcun legame. Non voglio dire che non ci siano cose buone ma i miei riferimenti sono appunto altri e non voglio aver la presunzione di pensare di poterla analizzare fino in fondo. Quello che vedo e che dico da anni è però che manca il coraggio di rivolgerci a ciò che esiste fuori dal nostro cortile. Noi stessi ci releghiamo in un angolo e pensiamo che il mondo finisca lì. Pensa a quanta musica italiana della scena Indie venga veramente esportata all’estero. Direi quasi nessuna in modo significativo, per fortuna con qualche meritata eccezione. Ultimamente sembra che ci siano dei nuovi Battisti, dei nuovi Rino Gaetano, dei nuovi De Gregori. Va bene, non è certo un problema riferirsi al proprio passato (se partiamo da esso per trovare una propria cifra stilistica personale) se non che sembri che la musica in Italia debba per forza avere questi riferimenti. Detto questo non penso di essere un purista. La contaminazione è un valore, nell’arte come nella vita.

 

Stella Burns e i vinili: dicci la verità, ci hai pensato?

Si, ci ho pensato. Sono tornato ad ascoltare e comprare vinile da qualche anno e il prossimo disco mi piacerebbe stamparlo in 33 giri. D’altra parte il cd ha un po’ perso la sua attrattiva. David Bowie aveva profetizzato negli anni ’90 che avremmo vissuto in un’epoca in cui la musica sarebbe diventata un flusso continuo, con un abbonamento. E’ avvenuto ed è anche avvenuto che questa disponibilità illimitata abbia inciso nella nostra percezione di quanto sia il valore di una canzone. Per me la musica è anche un rito, mettere una puntina sul giradischi e andare ad un concerto. Un rito personale o collettivo, ma comunque qualcosa che ha un peso nella vita delle persone e che dia importanza al grosso lavoro che c’è dietro lo scrivere e registrare un pezzo.

 

Chiudiamo con una piccola curiosità: hai mai pensato di registrare la tua musica in America?

Sia il primo disco che il secondo disco sono stati equalizzati/masterizzati a Tucson, da Jim Blackwood che lavora spesso con Calexico e Howe Gelb tra gli altri. Quindi un pezzettino di Stati Uniti c’è. Più che a registrare negli Stati Uniti ho pensato all’eventualità di andarci a suonare!