Riccardo Prencipe: The stones of Naples

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Riccardo Prencipe vive e lavora tra Pozzuoli e Napoli. La sua attivita’ di storico dell’arte si fonde con quella di musicista dando vita ad un percorso musicale nutrito di stili complementari. Questi si trasformano in segmenti di intensa emozionalita’, dove il pensiero silenzioso della sua immaginazione si fa voce di un sentire scuro e vero.


Riccardo Prencipe (Corde Oblique): “The Stones Of Naples”, 31 marzo 2009


SC: Hai realizzato cinque dischi, cosa e’ cambiato dal primo album dei Lupercalia all’ultimo CD del tuo progetto solista Corde Oblique: “The stones of Naples”?
RP: Con il gruppo Lupercalia (che ho fondato nel 1999) ho inciso due album: uno strumentale con il violinista Pierangelo Fevola (“Soehrimnir”), il secondo (“Florilegium”) con Claudia Florio, voce soprano. Entrambi gli album hanno visto la collaborazione di molti altri musicisti. Per questi due CD sono stato l’autore del 90% di testi, melodie e arrangiamenti, cosi’ mi sono reso conto che mi interessava realizzare un progetto solista per poter decidere liberamente di collaborare con i musicisti e le voci di tipo piu’ svariato, creando un gruppo variegato con componenti non fissi.
Spesso infatti mi incuriosisco nei riguardi di musicisti che reputo interessanti, cosi’ ne chiedo la collaborazione, realizzando dei brani proprio per le loro specifiche qualita’ musicali. Mi piace sperimentare in questa direzione, avere la possibilita’ di cambiare sempre mettendomi alla prova, scrivendo pezzi per voci particolari, le cui caratteristiche rappresentano per me una sfida musicale molto stimolante. Mentre scrivo un brano ho sempre in mente la persona, cantante o musicista, che poi dovra’ eseguirlo.


SC: Corde Oblique e’ un progetto solista, ma per certi aspetti si tratta di un gruppo piuttosto nutrito, ce ne parli?
RP: Come dicevo e’ un gruppo variegato, nel senso che non tutti i collaboratori sono presenti in tutti i lavori. Tra gli ospiti fissi c’e’ il violinista, Alfredo Notarloberti, il suo sound e’ parte fondamentale dei miei progetti, non ho mai fatto un concerto senza di lui. All’ultimo album hanno partecipato ben 14 musicisti. Sono persone che stimo immensamente, e’ chiaro che a volte piccoli fraintendimenti sono inevitabili in un contesto di collaborazione, ma non mettono mai in discussione la stima a livello umano e professionale. Soprattutto, mi hanno aiutato in questa avventura, conoscono tutte le difficolta’ che ho incontrato come produttore dei miei album, e collaborano con me senza risparmiarsi. A loro piace quello che faccio, d’altra parte secondo la mia ottica e’ poco produttivo chiamare una persona a suonare un genere musicale che non sente suo, e lo fa solo come occasione di lavoro.
Tra le new entry invece c’e’ Claudia Sorvillo, una cantante molto giovane. Io penso che le scommesse siano valide in questi termini, chiamare una voce affermata e’ certamente utile se non necessario, ma nel mio progetto c’e’ anche la voglia di scoprire e sperimentare, quindi scommettere su una ragazza di vent’anni che non ha alle spalle grandi cose ma ha tanta voglia di fare, e’ per me l’aspetto piu’ interessante, in piu’ il risultato e’ gradito al pubblico. Un’altra voce molto rappresentativa e’ quella di Floriana Cangiano presente in questo disco e nel precedente, dotata di una incredibile capacita’ tecnica. Infine Caterina Pontrandolfo, presente in tre dischi, un’interprete importantissima per la mia musica. In questo disco in particolare hanno partecipato anche: Monica Pinto (la voce degli Spaccanapoli), Geraldine Le Cocq (la voce di un gruppo francese: i Mediavolo), Alessandra Santovito (cantante degli Hexperos, formazione abruzzese), Alessio Sica (batterista degli Argine), Umberto Lepore (bassista), Franco Perreca (clarinettista), Francesco Manna e Michele Majone (percussionisti) e ovviamente il gia’ menzionato Edo Notarloberti (gia’ Ashram e Argine, e di recente attivo col suo progetto solista).
Nuova anche Annalisa Madonna, che ho conosciuto dopo la realizzazione del disco. Ha una grande capacita’ creativa ed esecutiva e sicuramente sara’ presente nel mio prossimo album.


SC: Un gruppo cosi’ variegato propone caratteristiche tecniche ed espressive molto differenti come dicevi. Quando scrivi un pezzo hai gia’ in mente il tipo di voce o lo strumento a cui vuoi destinarlo?
RP: Si, i miei brani nascono come dei vestiti che disegno appositamente per le voci o i musicisti che li eseguiranno.
La tecnica e’ un aspetto che mi interessa poco, di solito mi faccio catturare dall’emozione che una persona mi procura con la sua esecuzione. Certo ci sono cantanti che racchiudono in se’ entrambe le doti, riuscendo ad essere tanto tecniche quanto appassionanti, ma se le loro qualita’ timbriche non mi emozionano o non sono adatte alle cose che scrivo, non le coinvolgo. Una voce pop non avrebbe molto senso nel mio progetto. Mi e’ capitato forse un paio di volte di scrivere dei pezzi per emergenza interiore, senza avere presente una cantante in particolare, ma di solito ho in mente la voce che dovra’ eseguirli, cosi’ come i musicisti che dovranno interpretarli.


SC: Il groove a cui ti ispiri si fonde con sonorita’ nordiche e si avvicina ai toni scuri e tristi della dark wave, come definiresti musicalmente la tua musica?
RP: Il mio background musicale non e’ eccessivamente folto, tra i pochi dischi che possiedo c’e’ la discografia di Lisa Gerrard e dei Dead Can Dance. Nascono negli anni ’80 e l’operazione che compiono e’ quella di prendere le radici della musica etnica e fonderle con la musica gotica. Il risultato e’ questo etnico un pò piu’ malinconico, proveniente dal dark wave e mescolato a sprazzi con la musica medievale del ‘200 e ‘300. A questi aggiungerei sicuramente Bjork, i Radiohead e alcuni gruppi metal. Ovviamente il mio risultato e’ molto diverso dalle fonti ispiratrici. Un conto e’ l’imitazione e un conto e’ l’emulazione, non si puo’ riproporre l’idea di qualcun altro in modo asettico, si puo’ raccogliere uno stimolo, ma il risultato deve essere assolutamente personale. In ogni caso, come tutti i musicisti spesso affermano, preferisco sempre che la gente ascolti, in quanto realizzo brani molto diversi tra loro: alcuni di impianto classico con piano e chitarra, oppure folk, altri che si possono accostare invece alla musica di Battiato, o pezzi fortemente etnici. Non ho uno standard armonico o melodico, la creazione e’ molto istintiva e nonostante sia diplomato in chitarra al Conservatorio di Napoli, ho cercato di dissociarmi dal pregiudizio che riconosce alla musica classica l’appellativo di “vera e unica” musica. Non mi sento un chitarrista classico, sono una persona con un istinto creativo e cerco di assecondarlo.


SC: Qual e’ il progetto di fondo di questo lavoro?
RP: Si evince gia’ dal titolo “The stones of Naples”, le pietre di Napoli. I titoli dei dischi sono l’unica cosa che mi permetto di rubare ad altre persone (ovviamente non musicisti). Li annuncio come “furti dichiarati”. Nello specifico si tratta di un titolo che ho ripreso da un libro, ne e’ autrice Caroline Astrid Bruzelius, una storica dell’arte che si e’ occupata dei monumenti medievali a Napoli. La scelta non e’ casuale, perche’ il disco ha un tema di fondo che e’ proprio quello dei monumenti di Napoli e dintorni, cui si ispirano la maggior parte dei pezzi, un pò come un “concept album”. L’unico pezzo che non si ispira a Napoli, ma ad una citta’ sempre in forte contatto con essa (Barcellona), e’ “Barrio Gotico”.


SC: In che modo si legano le tue due formazioni di musicista e storico dell’arte? Dove finisce il musicista e dove inizia il critico?
RP: Quello che a me interessa della storia dell’arte e’ soprattutto l’aspetto passionale e divulgativo, ovviamente quest’ultimo aggettivo non va inteso in chiave negativa, ma va in ogni modo sposato con la correttezza filologica. Il vero stimolo del mio mestiere e’ accendere nelle persone l’interesse per l’importanza estetica di alcune forme, ed ho cercato di fare la stessa operazione in musica, per questo devo essere molto grato al metodo del mio insegnante, Stefano Causa.
Quando scrivo un pezzo, ad esempio su Caserta Vecchia, cerco di dimenticarmi di quello che conosco sulla storia del borgo medievale, o sulle caratteristiche tecniche degli stili di costruzione. Mi lascio invece trasportare dalle suggestioni che questi elementi mi trasmettono; gli elementi architettonici della cattedrale romanica provocano in me suggestioni visive ed emotive che cerco di tradurre in musica dando voce a quello che provo, e non a semplici descrizioni architettoniche.
A volte lo studio rischia di trasformarsi in una zavorra, e’ quindi importante convertirlo  in termini di infinita fantasia emozionale. Ho concluso da poco il Dottorato di Ricerca, e sono entrato a contatto con tematiche riguardanti il sottobosco della pittura e della scultura del Trecento a Napoli. Quando scrivo un articolo inerente ad argomenti artistici o storici non posso dare spazio alle motivazioni che mi hanno indotto a compiere questo tipo di studi. Agli addetti ai lavori, infatti, interessano problemi diversi, di tipo filologico o di datazione. La musica invece e’ la chiave di volta tra il mio lato emotivo e quello scientifico.


SC: Il libretto del tuo “The stones of the Naples” e’ corredato da una selezione di fotografie di diversi autori, tutte molto interessanti. È possibile trovare una associazione tra i pezzi e le foto, o il concetto di queste non ha relazioni dirette con la musica?
RP: Ho una certa predilezione per la fotografia e tutti i libretti dei miei dischi sono stati realizzati con foto di artisti emergenti. Tra questi ultimi cito Paolo Liggeri che ha fatto la maggior parte delle foto (tra cui copertina e retrocopertina), poi Rita Barbato, Serena Marra e Luigi Coiro. A parte il primo che ho nominato, non si tratta di fotografi che vivono di questo mestiere, ma fanno foto al pari di professionisti. A mio parere bisogna avere uno sguardo disinibito in questo campo. Se un autore non e’ conosciuto non deve essere snobbato, deve essere valutato come un artista che ha qualcosa da dire. Spesso infatti gli autori famosi scadono col tempo perche’ perdono in termini di energia creativa. Nel mio piccolo mi piace considerarmi anche un “talent scout”, studiare le caratteristiche degli autori, capire quali sono quelli che meritano. Certo e’ sempre una scommessa, valutare le opere contemporanee non e’ facile. Mentre per l’antico abbiamo una “visione dall’alto”, per il contemporaneo abbiamo un punto di vista troppo ravvicinato, quindi bisogna fare attenzione. L’associazione delle foto ai testi non e’ stata pensata da me in modo specifico. Il progetto di impaginazione e’ stato realizzato dalla casa discografica (la francese Prikosnovenie) anche se, almeno in un caso, ho scelto personalmente una foto da associare ad un brano. Si tratta di “Venti di sale”, per il quale ho chiesto che venisse usata la foto del particolare del portale quattrocentesco del Palazzo Carafa, che si trova al centro storico di Napoli (l’autore della foto si chiama Luigi Coiro). Il portale e’ di legno e chiaramente mostra i segni impietosi del tempo, infatti sembra ricoperto di incrostazioni saline. A me ha dato una suggestione fortemente legata al testo del pezzo.
Anche nel mio primo disco da solista, “Respiri”, ho individuato una foto che mi piaceva associare ad un pezzo intitolato “Eventi”. Si tratta del particolare delle mani della statua di bronzo di S. Gaetano (piazzetta S. Gaetano a Napoli). Nel testo della canzone c’e’ una frase suggeritami da Chiara Isernia, restauratrice, le mani di bronzo invertite dal tempo. Si riferiva ad un particolare effetto del bronzo che, col tempo, i solfati di rame inverdiscono. Cosi’ ho chiesto ad un amico fotografo (Angelo Antolino) di realizzarne uno scatto.


SC: Che tipo di relazione hai avuto con i fotografi piu’ affermati?
RP: Non e’ sempre facile ottenere scatti di autori famosi, da parte mia e delle case discografiche indipendenti e’ impossibile riuscire a pagare anche per i diritti delle fotografie. Le spese per autoprodurre un disco sono altissime, e dovendo operare una scelta, chiaramente la realizzazione del booklet resta ai margini, cosi’ cerco di procurarmi le foto grazie alla disponibilita’ degli autori. Nel caso della foto di copertina di un album del 2005 (“Respiri”), si tratta di uno scatto di un fotografo giapponese, Kenro Izu, che ha fatto dei servizi fotografici in oriente e medio oriente, realizzando lavori di alto livello estetico. Speravo nella sua collaborazione, cosi’ gli ho scritto chiedendogli l’autorizzazione ad usare un suo scatto. Lui e’ stato molto cortese, ha voluto vedere tutto il progetto di impaginazione dell’album e ascoltare il disco, dopo di che ha dato la sua approvazione. Lo stesso e’ accaduto con un fotografo tedesco, Achim Bednorz,  mentre i “no” piu’ cocenti sono arrivati dai miei conterranei, come Mimmo Iodice, un’intelligenza rara in senso visivo, fotografo che stimo immensamente, che pero’ non ha mai risposto alla mia richiesta, lasciandola cadere nel silenzio. Questo mi dispiace molto: avere il silenzio di un napoletano, contro la completa disponibilita’ e apertura da parte di un artista di oltreoceano e’ un po’ spiazzante; la mia stessa casa discografica e’ francese!


SC: Hai presentato i tuoi dischi anche in Europa, qual’e’ la scena musicale piu’ congeniale al tuo progetto?
RP: Quando nel ’99 incisi la prima demo-tape, la portai alla casa discografica “Energheia” di Giugliano e il risultato fu un invito sottilmente ironico a rivolgermi a case piu’ “importanti”. Quando poi ho avuto il mio riscontro oltremanica, ho richiamato il direttore, ottenendone sorpresa e la richiesta di un pezzo da introdurre in una loro compilation in uscita!! Questo piccolo episodio e’ sintomatico della nostra esterofilia.
Ho suonato in Olanda, in Francia e in Germania. A maggio suonero’ a Lipsia, a Francoforte e in Belgio. In Olanda vado ogni due anni circa, e’ un territorio che risponde bene, c’e’ molto interesse per questa musica. A Parigi addirittura ho visto il mio disco alla Fnac, mentre a Pozzuoli, citta’ dove vivo, non ho mai suonato! Forse la risposta e’ che in Italia siamo un pò esterofili, mentre in Europa sanno valorizzare il loro prodotto, come quello estero. Diciamo che l’Italia non rischia, non investe, ne’ ora che c’e’ crisi ne’ in passato, non e’ ancora capace di lanciare un genere nuovo, una voce non convenzionale, una sperimentazione, che non risponda in qualche modo ai gusti di un pubblico piu’ ampio e meno esigente. Poi certo, questo e’ la conseguenza del fatto che da noi in genere si cerca di spendere molto poco per i dischi, se si riesce ad averli gratis la si considera una scaltrezza, e parliamo di 15 euro, contro i milioni che spendiamo per macchine, vestiti e quant’altro. Polemiche a parte, credo sia un aspetto culturale del nostro Paese.


SC: Hai gia’ in mente nuovi progetti o per il momento ti dedichi alla promozione del tuo ultimo lavoro?
RP: Spesso mi dico di fermarmi un pò. Ho gia’ dei nuovi pezzi pronti, di solito sono abbastanza produttivo. In realta’ ho sempre paura di non superare il mio disco precedente, anche se finora penso di esserci sempre riuscito. Probabilmente tra qualche anno scrivero’ cose diverse, quindi mi piacerebbe fermarmi adesso.
Resta il fatto pero’ che se mi viene un’idea ho bisogno di svilupparla, quindi penso che continuero’ a scrivere, i processi creativi non si possono teorizzare. Una cosa su cui continuero’ a battere sono le cover. In questo disco c’e’ una cover di un gruppo apparentemente distante dal mio stile, che ho modificato in chiave acustica, si tratta di un brano degli Anathema. Attualmente sto lavorando ad una cover di un altro gruppo, ancora piu’ consacrato nella storia del rock, quindi va avvicinato con molta cautela, speriamo bene.

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