Pronti alla rivoluzione con “Nemo profeta”

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Lo hanno chiamato Nu Kombat Folk…e a noi sembra assurdo come si possa mescolare assieme l’internazionalità di ere futuristiche in continua evoluzione oltre la fantasia contro parole stantie di tradizioni e significati eterni come “folk”. Eppure questo è ciò che accade per mano di tantissimi progetti che sposano il connubio dei due fronti. Tra questi sottolineiamo la bellissima prova d’autore firmata Pupi di Surfaro dal titolo “Nemo profeta”. Bellissima perché pare voler dare il contentino a chi è ancora stretto alle radici di una Sicilia antica, ma proprio non ci tiene a fare la parte dell’ennesima folk band sociale “comunistoide” che inneggia alla lotta e alla rivoluzione. I Pupi cantano nuova vita e nuova speranza, vorrebbero avere un mondo senza guerra e invitano all’intelligenza, all’ascolto, al confronto… in soldoni, per usare metafore pasoliniane, invitano a “spegnere la televisione”. E dentro anche elettronica quasi dub, momenti epici e medioevali dell’era moderna, scenari metropolitani di città notturne e il rock che diventa rap e che un poco riporta alle liriche di Caparezza. Questo disco parla in dialetto ma sa come farsi capire da tutti.

 

 

Per voi cosa significa fare del folk o, per meglio dire, Kombat Folk?

Il nostro Nu Kombat Folk si fa carico e raccoglie l’eredità di un lungo filone di band ed artisti che hanno posto al centro del loro impegno l’attività sociale e politica. A partire dal grande Woody Guthrie che ha ispirato Bob Dylan. Negli anni ‘80 i Clash incidevano il disco “Combat Rock” che conteneva il singolo “Rock the casbah”. Più tardi i Modena City Ramblers davano alla luce il loro primo ep dal titolo “Combat Folk”. La musica è un’occasione troppo importante per essere sprecata in brevi momenti di sterile ed inutile intrattenimento.

 

Anni e anni fa ormai la musica era davvero sociale. Ovvero una canzone era bandiera per le rivoluzioni. Oggi il pubblico, il popolo, come reagisce a chi come voi canta per l’amore e per la libertà?

Non sono cambiate le canzoni, né il modo di fare musica. È cambiata la società. È cambiata la gente che non ha più voglia di fare le rivoluzioni e non ha più voglia di ascoltare canzoni. La musica rischia di diventare la soundtrack del videogame della nostra vita.

 

Restando sul tema, non trovate che sia divenuto in qualche modo trasparente il ruolo di certe canzoni? Sarà forse anche il frutto di un abuso e di una “moda” questo genere di espressioni?

È l’era dell’esaltazione dell’estetica priva di contenuti. I contenuti spaventano. E quel che è peggio, il contenuto stesso è diventato estetica. Si trattano certi temi solo per accontentare una certa fetta di pubblico che ha bisogno di sentirsi raccontare delle storie che ormai conosce a memoria. Ascoltare certa musica serve ad identificarsi con una cerchia di gente che ascolta quella musica.

 

La vostra radice comunque resta il folk: un’accezione più estesa o magari un preciso riferimento alla vostra terra?

Abbiamo abbandonato l’idea che il folk debba essere necessariamente legato all’uso di strumenti e stilemi che appartengono al passato. Il folk deve essere vivo. Deve essere capace di rinnovarsi. Il folk ha bisogno di parlare un linguaggio moderno, contemporaneo. Del folk abbiamo voluto mantenere lo spirito profondo, legato alle emozioni e i sentimenti che partano dal basso e che colpiscono il pubblico dritto allo stomaco. Il nostro è un progetto legato al passato, che vive nel presente e proiettato nel futuro.

Che poi c’è anche la contaminazione senegalese a firma del musicista Jali Diabate: come mai questa scelta?

È una scelta legata anche al tema che è affrontato nella canzone “’Gnanzoou”, che parla di immigrazione e delle stragi del Mediterraneo. Incontrare un musicista come Jali, portatore di una cultura così distante e così vicina, fondere suoni ed atmosfere di altre culture, è stato molto stimolante. La musica unisce, parla la stessa lingua, la lingua dell’integrazione. Per usare le parole di Don Andrea Gallo, “Vedo che quando allargo le braccia i muri cadono. Accoglienza vuol dire costruire ponti e non muri.”

 

Esiste un “non detto” in questo disco? Cioè pensiate che “Nemo profeta” abbia detto tutto quello che dove e tutto quello che poteva?

“Nemo Profeta” dice tutto quello che non ha detto. Il compito di ogni artista non è quello di dire verità. Non è quello di creare certezze e rassicurare la gente. Compito di ogni artista è quello di creare dubbi, incertezza. L’arte deve mettere in crisi tutte e strutture e sovrastrutture che sorreggono la cultura di ogni società. Senza la funzione destabilizzante e, diremmo, distruttiva, dell’arte non ci sarebbe crescita, evoluzione e consapevolezza.

 

Prendo spunto dal singolo e ti chiedo: se una banalità viene veicolata dal sistema e si diffonde, non è forse colpa del pubblico che invece che schivarla ricercando qualità si accontenta e veicola quello che vuole?

Il pubblico ha bisogno di essere rassicurato. Tutti noi ricerchiamo la comodità, l’agio, la sicurezza. Il pubblico fugge da tutto ciò che non riconosce immediatamente come familiare, riconoscibile. In un momento di grande crisi come quello che stiamo vivendo la gente alza le proprie difese e si richiude nella banalità della quotidianità e di una vita borghesemente al riparo da ogni minaccia e pericolo.

“Scantativi, scanzativi, sintiti trimari la terra, sutta li pedi, sutta li città, sutta li vostri farsi virità…Li me’ paroli su’ bummi!”.