NonSoloTango

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Pierluigi Balducci è uno dei bassisti più aperti e preparati del panorama musicale italiano. I suoi molteplici amori danno vita ad altrettanti progetti, di cui ci parla dettagliatamente e con grande fervore in questa lunga intervista.

 

Il Nuevo Tango Ensamble è uno dei tuoi gruppi di punta e direi quello che forse comprende tutti i tuoi amori musicali. L’America tutta e la tradizione Europea. E Piazzolla come ideale artista di riferimento, che ben rappresenta i due continenti (il Tango ma anche l’amore per un contrappunto tutto europeo, bachiano). E il jazz ce lo metti tu.
Sì, è uno dei miei gruppi più rappresentativi, ed è verissimo che compendia une bella fetta dei miei ‘amori’. Nuevo Tango Ensamble non è assolutamente, a dispetto del nome che a dire il vero ci rappresenta solo in parte, un omaggio a Piazzolla, né è un gruppo di ‘nuevo tango’ in senso stretto. Ma indubbiamente prende le mosse da quella apertura al jazz e alle altre musiche, da quella rifondazione del tango che Piazzolla aveva in mente; da questa porta, aperta dal grande Astor, il trio ha mosso i suoi passi, per diventare un gruppo che sintetizza in un prodotto autentico, onesto, sincero (nessuna contaminazione, termine odioso, nessun world jazz modaiolo), sia il jazz sia le musiche del Sud America sia la tradizione melodica italiana. Il jazz, in verità, ce lo mettiamo tutti e tre. Certo, Gianni Iorio, splendido bandoneonista, è il primo a non definirsi un musicista jazz, essendo lui di formazione prettamente classica, mentre io e Pasquale Stafano siamo più vicini alla figura del musicista jazz, benché in entrambi la formazione classica abbia avuto un ruolo fondamentale.

Il gruppo è attivo da 15 anni ormai e attraverso le diverse pubblicazioni è possibile scorgere una precisa evoluzione. Da un lato un’emancipazione dal padre Piazzola (vedi i tanti pezzi originali dell’ultimo disco) e una maggiore capacità di esprimere il tutto con poco (dal gruppo più ampio del primo disco fino al trio che è più immediato e riesce ad esprimere l’essenza della musica).
Hai disegnato bene l’evoluzione del gruppo: nato per iniziativa di Gianni e Pasquale, si è imposto sui palchi di tutta Europa dapprima con l’esecuzione e la reinterpretazione, vibrante e sempre diversa, dei capolavori piazzolliani, in una fase storica in cui Piazzolla era diventato troppo spesso uno ‘spartito’ melenso per musicisti classici del tutto incapaci di conoscerne in profondità le radici, lo stile, le caratteristiche, le profonde motivazioni; poi, data quella implicita tendenza di entrambi i miei colleghi ad aprirsi all’improvvisazione, e soprattutto considerando la loro notevole statura compositiva, hanno cercato nuove strade. A questo punto, l’incontro con me, dato il mio particolare percorso concertistico e discografico, si è rivelato ‘felice’, una sorta di amore a prima vista che ci ha portato all’assetto attuale e a calcare i palchi dei più prestigiosi e disparati festival jazz e jazzclub in tutto il mondo.

Vi è anche una certa “scientificità” nella scelta degli ospiti, intesa come capacità di individuare il musicista che meglio può interpretare il mood di quel progetto. Oppure è il contrario ed è l’ospite che determina mood e progetto?
Per parafrasare il mitico Guzzanti, “la prima che hai detto”. Abbiamo chiamato a collaborare con noi musicisti che potessero interpretare al meglio la nostra musica, ma non l’abbiamo mai costruita su di loro. Tanto Javier Girotto quanto Gabriele Mirabassi, se ci pensi bene, sono come noi musicisti incredibilmente eclettici, tanto capaci di improvvisare quanto solo di ‘interpretare’ la musica altrui secondo una sensibilità che è più latino-americana che nordamericana; sono musicisti in cui riconosci la vastità e l’eterogeneità dei ‘mondi’ che hanno saputo ‘distillare’ con la loro personalità. Gabriele Mirabassi, con cui tra l’altro ho messo su un nuovo trio che include il chitarrista Nando Di Modugno, è in particolare un musicista nel quale riconosci chiaramente tanto la formazione jazzistica quanto la formazione classica, caratteristica peculiare anche mia, di Gianni Iorio e di Pasquale Stafano.

Tutta la cantabilità del gruppo Nuevo Tango Ensamble rimane intatta anche nel Pierluigi Balducci Ensemble con la “e”… Una sorta di “casa” dove ospiti i musicisti che più stimi e che più ti stimolano. Fino all’ultimo splendido “Blue from Heaven” in cui oltre a Michele Rabbia sono presenti John Taylor e Paul McCandless. E il suono a là Oregon è quasi inevitabile…
Il mio gruppo ha una storia ormai più che decennale, all’interno della quale, se io volessi cercare un ‘fil rouge’, potrei certamente trovare l’amore per la tradizione di provenienza americana (nordamericana e sudamericana), per l’improvvisazione di matrice jazzistica e per la nostra tradizione classica europea, che noi non possiamo ignorare se non a costo di fare violenza a noi stessi. E’ nel nostro DNA, di musicisti nati non ad Harlem, o a Manhattan, ma nella nostra meravigliosa penisola.

Agli albori il mio quartetto includeva il sopranista Roberto Ottaviano, il chitarrista Lutte Berg ed il percussionista Massimo Carrano (intorno al 2000). Poi si è evoluto seguendo come sempre le vie del mio cuore e della mia mente: ha incluso il fisarmonicista Luciano Biondini e il chitarrista Antonio Tosques, uno dei miei partners ‘storici’ oltre che amico di una vita, e ha collaborato tanto con Ernst Reijseger, uno dei massimi esponenti del violoncello jazz, quanto col violinista barese Leo Gadaleta. L’assetto attuale del mio ensemble vede invece Paul McCandless (oboe, sax soprano), Michele Rabbia (non alle percussioni ma alla batteria) ed il pianista John Taylor. In parole povere, ho l’onore e la fortuna di collaborare con alcuni dei miei ‘padri’ e ‘ispiratori’ musicali. Circa il tuo riferimento agli Oregon, invece, devo contraddirti. Non l’ho mai cercato. Ho solo scritto dei brani per dei grandi musicisti, di grande sensibilità e esteticamente a me vicini, e loro li hanno eseguiti, sia in studio sia in tour, non solo impreziosendoli e sostanziandoli con loro grande statura artistica, ma trovando in essi il piacere e la felicità che nasce dal suonare qualcosa che si ama o si apprezza. I riferimenti timbrici agli Oregon sono semplicemente dovuti al fatto che l’oboe e il sax soprano di Paul sono divenuti, dopo quaranta anni di discografia da lui realizzata con gli Oregon, per tutti, una sorta di suono ‘classico’: Paul è il suono degli Oregon. E’ un po’ come sentire un Fender Jazz bass: un classico.

Suonare il basso elettrico come fai tu in modo libero, propositivo, sempre alla ricerca di interplay e di input ritmici e melodici è direttamente mutuato dallo studio della chitarra, tuo primo strumento? O anche dall’ascolto di musica che prescinda da quella esclusiva di bassisti? Lo stesso vale anche per la tua vena compositiva?
Il basso elettrico ha ormai una sessantina di anni di storia, e da Pastorius in poi è divenuto strumento del jazz. Se molti bassisti jazz hanno seguito le orme di un bassismo strettamente legato al funk, alla black music (pensiamo a Marcus Miller o Victor Wooten), altri hanno seguito altri percorsi, sicuramente legati ad estetiche e percorsi differenti. Bassisti come Swallow o A. Jackson dimostrano che il basso elettrico si può suonare in contesti assolutamente acustici e altri come Dominique Di Piazza devono molto del loro stile alle tradizioni musicali da cui provengono. E’ così per tutti i musicisti, per quelli che hanno in mente solo di trovare la propria strada e di esprimere autenticamente sé stessi. Lo strumento, per definizione, serve a fare altro da sé. Lo strumento non è mai il fine. E’ strumento. Come tu dici, io non solo non ho ascoltato soltanto i bassisti elettrici, né tanto meno solo i contrabbassisti: sarebbe un atteggiamento molto poco fertile. Il mio modo di suonare il basso evidentemente risente sia dei miei trascorsi adolescenziali di chitarrista classico, sia del mio amore giovanile per be bop e hard bop, sia dei miei ascolti molto ampi, sia dell’amore per la musica classica, sia della mia scoperta più recente del mondo latino-americano, e per finire del mio eclettismo. Come alcuni di quei grandi che ho citato prima, non sento il bisogno di confinare il basso elettrico solo nel campo della fusion, del jazz-rock o jazz-funk, dove spesso le dinamiche si appiattiscono verso l’alto; il basso può esprimersi con una tale varietà dinamica e con un’espressività timbrica e soprattutto con un respiro tale, da potersi sposare perfettamente a strumenti assolutamente acustici.

Parliamo un po’ della tua Puglia. Bari come Buenos Aires o New York. Quanto sei legato musicalmente alla tua terra? Quanto devi anche alla Dodicilune alla quale ti sei affidato da tempo per i tuoi lavori con l’Ensemble?
E’ una domanda che un po’ tutti i giornalisti mi rivolgono. Evidentemente ormai la Puglia non solo è divenuta una sorta di ‘marchio’ nell’ambito del turismo, dei prodotti della terra e dell’enogastronomia, ma è considerata unanimemente una fertile regione per la musica, per il cinema e per la cultura italiana in generale.

Se ti riferisci al patrimonio folklorico della taranta, della pizzica e simili, i miei legami sono scarsi e superficiali. Del resto il folklore musicale pugliese non è mai stato un terreno di appassionata ricerca per me. Del resto pensare che un musicista meridionale del XXI secolo debba essere profondamente legato a tradizioni etniche della sua regione è un po’ frutto di una concezione ‘esotica’ e da cartolina del nostro Sud, che traspare ad esempio in alcuni recenti film ‘meridionalisti’ dove pare che il Sud sia rimasto fermo a 100 anni fa, e che mi fanno un po’ arrabbiare. Bari è una moderna città della musica: alla tradizione delle bande, fiorenti in ogni comune e promotrici di cultura musicale fino a pochi decenni fa, si è innestata una grande scuola ‘classica’ e, dagli anni ’80, un’altrettanto florida scuola jazzistica che ha dato innumerevoli frutti. A mio avviso questa fertilità si deve sia al carattere commerciale e aperto delle città della costa adriatica barese, sia alla presenza di una borghesia con una certa storia alle spalle (molto più che nel Salento o nella Puglia garganica) e, infine, ad un tessuto economico eccezionalmente dinamico che ha consentito ai pionieri del jazz barese di poter dignitosamente vivere di musica, mettendoli in condizione di ‘seminare’, di trasmettere il jazz ai più giovani. In questo senso, devo molto alla mia Bari e alla sua dimensione di ‘porta’ aperta al Mediterraneo e all’Europa intera.

Così come alla Puglia, devo molto alla Dodicilune, di cui sono sostanzialmente un artista in regime di quasi ‘esclusività’. All’iniziale sintonia di tipo musicale, estetico, si è unita una profonda amicizia con i responsabili dell’etichetta leccese. Così, la Dodicilune ha prodotto i miei ultimi tre dischi (Leggero, 2006; Stupor Mundi, 2008; Blue from Heaven, 2012) e mi ha anche commissionato gli arrangiamenti per una rilettura di Tom Waits, confluiti in uno splendido lavoro della cantante Serena Spedicato. La prossima produzione Dodicilune che mi vede coinvolto è la prima prova discografica del trio Mirabassi – Di Modugno – Balducci: un lavoro a nome di tutti e tre. Che forse includerà una grossa sorpresa, di cui non ti parlo per una sorta di scaramanzia.