Musicista eclettico, curioso e intraprendente, Massimo Morganti si racconta attraverso questa intervista, nella quale parla della sua attività artistica e sviscera gli aspetti principali di “Arrangiamenti”, il suo nuovo lavoro discografico licenziato dall’etichetta Notami Jazz.
Sei un eccellente trombonista, ma hai dedicato una vita allo studio della musica a 360 gradi, diplomandoti brillantemente in Strumentazione per Banda e Composizione. L’insaziabile sete di conoscenza ti ha spinto ad approfondire gli studi oltre il trombone?
Sì, anche se la scelta non è stata poi così tanto ragionata. Ho sempre suonato vari strumenti e arrangiato le musiche per i gruppi in cui suonavo. Tutto ciò da quando ero adolescente, in modo molto naturale. Ho realizzato solo in un secondo momento che questo mi avrebbe dato una visione musicale molto più ampia e aiutato enormemente anche nello studio del trombone e dell’improvvisazione.
A proposito di intenso studio, hai avuto il privilegio di formarti anche presso il prestigiosissimo “Berklee College” di Boston, autentica pietra angolare per l’apprendimento del jazz. Questa opportunità ti è stata concessa grazie al conseguimento della Borsa di Studio ottenuta in seno ai seminari di Umbria Jazz del 1997. Puoi raccontare questa emblematica esperienza vissuta negli States?
Trascorrere quei mesi al “Berklee College” è stato per me un sogno che si realizzava. Parliamo degli albori di internet. Avevo a disposizione una miriade di informazioni, musicisti straordinari come insegnanti, una sorta di paradiso sulla Terra. Ora è molto più facile informarsi e comunicare, ma ricordo quasi con tenerezza la sensazione che ho provato quando sono sceso dall’aereo: dal mio paesino di 1000 abitanti a quella città così affascinante. È stata un’esperienza meravigliosa, ricca di stimoli che mi porto dentro ancora oggi.
Nel corso della tua prolifica carriera hai calcato il palco al fianco di nomi leggendari del jazz, tra cui: Kenny Wheeler, Bob Mintzer, Mike Stern, Joe La Barbera, Paul Mc Candless, Javier Girotto, Enrico Rava, Bob Brookmeyer. Quale tra questi strepitosi musicisti ti ha gratificato maggiormente dal punto di vista umano e musicale?
Di sicuro i due che ricordo con più stima e affetto sono Kenny Wheeler e Bob Brookmeyer. Del primo ho sempre ammirato l’unicità, come trombettista e compositore, la forza con cui ha saputo resistere alle mode e al business della musica per continuare a credere nel suo linguaggio e nel suo mondo. Il secondo è in assoluto il mio musicista di riferimento anche come strumentista. Ho sempre cercato di andare oltre al trombone e il suo esempio è stato fondamentale. A livello umano posso dire che erano due persone di una profondità e sensibilità assolutamente fuori dal comune.
Annoveri una pletora di incisioni come leader, co-leader e sideman. Esiste un disco, fra tutti, al quale sei indissolubilmente legato?
Mi verrebbe di rispondere il prossimo. Ma se guardo indietro potrei dirti che questo ultimo disco, “Arrangiamenti”, è probabilmente l’album al quale sono più legato. È stato un lavoro enorme, ma che mi ha regalato grandissime soddisfazioni.
Nel 2001 hai fondato la “Colours Jazz Orchestra”, una nutrita formazione, della quale sei il direttore, con la quale hai collezionato svariate esperienze significative. Come e quando è nata questa idea?
L’idea di mettere insieme un’orchestra è nata proprio una sera mentre ero a Boston. Ascoltai, per la prima volta, delle composizioni di Maria Schneider suonate da una big band del college, allora dentro di me pensai: appena torno a casa chiamo i miei amici e mettiamo insieme un’orchestra per suonare questa musica. Ero stanco delle solite sonorità delle big band in cui suonavo. Volevo coinvolgere i musicisti in un progetto più contemporaneo. E così siamo partiti.
Sei molto attivo anche in qualità di docente. Didatticamente e umanamente, in che modo interloquisci con i tuoi allievi?
Insegnare, negli ultimi anni, impegna gran parte del mio tempo, sia nei conservatori che nel mio studio. È una cosa fantastica che ti ruba un sacco di energie, ma che ti restituisce tutto in termini di stimoli e di nuove scoperte umane e musicali. Credo molto nell’esempio e nell’esperienza, più che in una didattica asettica e teorica. Quindi, suono sempre con i miei allievi e mi metto continuamente in gioco. Provo a farli capire che devono cercare loro stessi, trovando una via personale pur lavorando su materiali comuni.
Basandoti sull’esperienza da didatta, noti un interesse crescente e reale da parte dei giovani verso il jazz e la musica improvvisata in generale?
Assolutamente sì. Sto vedendo anche una schiera di musicisti classici affascinati e interessati al mondo dell’improvvisazione, a una pratica più elastica e creativa che ti permette di affrontare diversamente pure la musica “scritta”.
Poco tempo fa, come da te anticipato, hai dato alla luce la tua nuova creatura discografica: “Arrangiamenti”. Un disco prodotto dall’etichetta marchigiana Notami Jazz, realizzato con la “Chamber Orchestra Sinfonietta Gigli” e con la partecipazione di una big band nella quale figura, tra gli altri, l’immenso Joe La Barbera alla batteria, storico sodale di Bill Evans. Qual è il fil rouge che caratterizza questo progetto?
Questo lavoro, al di là della preparazione delle musiche, è costato un anno di telefonate, mail e incontri. Mettere insieme tutto è stata quasi una pazzia, ma ne è valsa la pena. Con il quartetto di Martin Wind, con Joe La Barbera, Scott Robinson e Bill Cunliffe, avevo collaborato qualche anno prima, come direttore, in un progetto su Bill Evans con l’Orchestra Filarmonica Marchigiana. Ci siamo intesi subito, così li ho ritenuti perfetti per un progetto come questo, in cui avevo bisogno di grande estro, ma anche di gente abituata a suonare in un contesto orchestrale. L’aiuto della Notami Jazz e degli amici di Ancona Jazz è stato fondamentale per contattare i musicisti e coordinare il tutto.
Il suono è un aspetto decisamente predominante in questo album. Puoi approfondire il discorso in questo senso?
Da diversi anni, quando incido, non posso fare a meno di avere al mio fianco un signore che si chiama Johannes Wohlleben, ingegnere del suono del “Bauer Studio” di Stoccarda che conobbi grazie a Kenny Wheeler. È un maestro assoluto, un grande musicista oltre che un sound engineer straordinario. Senza l’aiuto di una persona così, un lavoro di questa portata, può diventare un incubo. Mi preme sottolineare che il tutto è stato registrato in teatro, senza la possibilità di correggere nulla, se non quella di ripetere. Tutto ciò per cercare di ottenere un suono più puro e naturale possibili.
Vi saranno opportunità in giro per l’Italia o per il mondo di poter apprezzare questo lavoro dal vivo?
Sarebbe fantastico, ma le difficoltà economiche e logistiche per realizzare dal vivo un progetto come questo sono moltissime. Però io non mollo, chissà.