In uscita a febbraio il terzo disco di Mandara, benefico melting-pot di nazionalità, culture, ritmi e stili, anime del complesso background musicale del percussionista Gennaro Mandara de Rosa

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Se il precedente album (Alatul, 2004) era una sorta di viaggio sonoro fino ai confini del
Mediterraneo, il terzo lavoro per Gennaro “Mandara” de Rosa porta con sè, chiare e ben visibili, tutte le caratteristiche di un ritorno.
Dopo aver avuto modo di crescere dal punto di vista artistico e professionale, attraverso importanti collaborazioni tra le quali ci piace ricordare i tour europei come batterista e percussionista de Il Parto delle Nuvole Pesanti, l’esperienza di Pentoleeamp;Computer assieme al “99 Posse” Marco Messina, gli spettacoli teatrali con la compagnia Kripton del regista
Cauteruccio e, infine, il tour che sta accompagnando la reunion dei 99 POSSE, questo disco rappresenta, prima di tutto, la migliore metafora per rappresentare ciò che oggi è l’artista “Mandara”. Meglio: una cartina tornasole dei colori e degli umori dell’animo di un musicista, che dopo aver girato il mondo in tournèe, incontrando artisti di ogni genere e cedendo alla fascinazione di suoni, luoghi, linguaggi e stili quanto mai disparati, riporta tutte queste esperienze a casa per farne materia sonora.

Così è nato “Mandara”, e non a caso, questa volta – nonostante per il percussionista
calabrese sia già il terzo album – il titolo del disco coincide con il nome del progetto a cui
de Rosa è legato fin dagli esordi. Il risultato è un album energico e corale, in cui trovano
spazio, una per brano, tutte le anime del suo complesso background musicale. Dai ritmi
africani e indiani fino al miglior rock progressive anni settanta, passando per i suoni digitali,
le colonne sonore per il teatro e l’etno-rock italiano.

Così, per rappresentare il suo mondo artistico in tutta la sua poliedrica ricchezza, per le
voci di questo album Mandara attinge alle collaborazioni che lo hanno arricchito negli
ultimi anni di carriera. Trovano allora spazio nel progetto, oltre all’immancabile apporto
del “secondo Mandara”, Gianfranco De Franco, nomi del calibro di Marco “Posse”
Messina (autore delle programmazioni in “Hassan I Sabbah”), Peppe Voltarelli
(riconoscibilissima la sua vena poetica nelle parole di “Apfelsaft”), il jazzista Marco Zurzolo
(sassofono in “Yallah”). Poi un lunga scia di collaborazioni di grande lustro: come Amy
Denio, versatile musicista e cantante della scena alternativa statunitense (è sua la voce in
“Wind Song” e “Hassan I Sabbah”), il rapper Kiave (voce in “Wind song”), l’intera banda
musicale della Città di Corigliano (autrice di una straordinaria coda nel finale di “The pot
head pixies”), Lino Vairetti (leader degli “Osanna” e voce in “L’uomo”), il musicista tunisino
Marzouk Mejiri (voce e percussioni in “Tiiri tiiri”), Alessandro Castriota Scanderberg e l’attorecantante statunitense Jay Bethay Simba (voci in “B.B. the Kings”) e Narajan Chandra
Adhykari, musicista del bengala, esponente del movimento Baul (voce in “Shundor
Naya”).

Un benefico melting-pot di nazionalità e culture, segno che confrontarsi con linguaggi e
culture diverse non ha mai rappresentato un problema per Mandara. de Rosa, infatti, reso
ormai elastico e reattivo come la pelle dei suoi tamburi, ne dà ampia dimostrazione fin
dalle prime note del disco con “Yallah”, gioco atletico di ritmi e percussioni “cantate” in un
originalissimo etno-scat, paradiso per percussionisti in cui le parole contano solo per il
proprio ritmo e le sensazioni che evocano in chi le ascolta.

Da qui, proseguendo attraverso viaggi ideali, ecco spuntare l’inglese di Wind Song,
l’arabo in “Tiiri Tiiri”, il bengali di “Shundor Naya”, e le reminiscenze tedesche di “Apfelsaft”.
E neanche le prove testuali in italiano sono da meno. Lo si misura dal gioco ironico di “B.B.
the King”, dalla ricca prova cantautorale di “Next Step”, e poi nelle rime veloci di Kiave,
che anticipano la degna chiusura del disco con “Hassan I Sabbah”, in cui rivive in musica
un’immortale poesia-denuncia di W. Burroghs.

A dare spessore a tutto il lavoro, due preziose cover. Una di queste, “The pot head pixies”
degli australiani Gong – brano di culto del rock-progressivo anni settanta – è davvero
capace di non farsi dimenticare. Le fa da contraltare il rifacimento di “L’uomo” dei
partenopei “Osanna” (cui prende parte lo stesso cantante della band), con cui Mandara
sceglie di rendere merito ad una delle pagine più significative del rock nostrano. Tutto
questo è “Mandara”, e chissà quanto altro ancora: un disco diretto e piacevolmente
capace di fissarsi nella mente fin dal primo ascolto, portando con sè i segni palesi di una
raggiunta maturità stilistica. Una presa di coscienza artistica finalmente completa. Almeno
fino alla conclusione del prossimo viaggio.

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