ENRICO PIERANUNZI: il classico improvvisatore

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Abbiamo incontrato il pianista Enrico Pieranunzi in occasione dell’Ischia Jazz Festival, dove era presente in veste di musicista e relatore in un Convegno su Bill Evans. L’idea iniziale era di farmi raccontare dell’esperienza al Village Vanguard, dove si e’ esibito a capo del trio di cui e’ leader, primo italiano nella storia del jazz. Ne e’ nata, invece, una lunghissima chiacchierata, troppo interessante per essere riassunta e che riporto fedelmente di seguito…




Vorrei innanzitutto conoscere tutto della tua settimana al Village Vanguard con Paul Motian e Marc Johnson… un luogo magico in cui esibirsi, perche’ evoca storie, personaggi, “rivoluzioni” che sono state pensate e immaginate da ogni musicista.


Com’e’ nato l’ingaggio, come si e’ svolto, qual e’ stato il repertorio nelle diverse serate, che ambiente hai trovato, quali amici hai ritrovato tra il pubblico e chi non ti aspettavi? Insomma tutto…🙂


Tutto e’ cominciato con un’e-mail di Paul Motian che mi invitata a suonare con lui per una settimana al Village Vanguard. Li’ si suona dal martedi’ alla domenica per due spettacoli a serata, uno alle 21 e uno alle 23 con il pubblico che cambia. Quando sono andato a New York ho appurato che la cosa si era svolta in questi termini. Motian aveva dato un disco a Lorraine Gordon, la vedova 87enne di Max Gordon, il fondatore del Vangard. Lorraine e’ un personaggio molto americano, molto “newyorkese”.  Il disco e’ “Untold Stories”, da poco ripubblicato per Egea, e dopo averlo ascoltato la Gordon disse a Paul Motian di chiamarmi.


Il Vangard nacque nel 1936 ed era un “cantinone” dove si esibivano soprattutto cantautori, poeti avanguardisti, artisti che hanno anticipato la beat generation. Insomma nasce per un tipo di musica che e’ molto americano, quello della poesia accompagnata, alla Bob Dylan, alla Leonard Cohen, che e’ un tipo di musica piu’ presente del jazz in America. Poi negli anni ’50 divento’ un locale di jazz. Non il piu’ importante, che era il Birdland. Poi col tempo e’ diventato il luogo piu’ prestigioso.


 


Per quanto riguarda la scelta del repertorio, innanzitutto ne ho approfittato per scrivere diverse cose nuove, come mi capita quando c’e’ un progetto nuovo, immaginando soprattutto il suono dei musicisti, soprattutto di Paul Motian che e’ un musicista complesso, poco convenzionale, libero, uno che non tiene il tempo in maniera regolare, ha un suo linguaggio piuttosto complicato. Anche la musica del trio con lui non e’ una musica lineare. Quindi ho pensato a pezzi che assecondassero questa sua attitudine. E poi qualche standard, tipo “I mean You”, che e’ tra i suoi preferiti, e poi anche cose completamente libere, improvvisazione pura.


 


Ci e’ venuto a sentire un pubblico pressoche’ eterogeneo, composto anche da musicisti, ovviamente. E’ venuto Charlie Haden, per esempio, ma anche molti giovani musicisti e pianisti newyorkesi, cosa che mi ha fatto molto piacere.


Ovviamente per me e’ stata una specie di favola, che sara’ testimoniata quanto prima da un “Live at Village Vanguard”.


Prima pero’ ho diverse uscite gia’ previste e in dirittura d’arrivo in esclusiva per la CAM. E’ appena uscito per la CAM, per esempio, “Enrico Pieranunzi Latin Jazz Quintet”, registrato al Birdland di New York, con pezzi dal sabor de Cuba, di cui ho scritto sia la musica che l’arrangiamento per due fiati. Uno e’ l’argentino Diego Urcola, l’altro Yosvany Terry, e poi John Patitucci al basso e Antonio Sanchez alla batteria. A seguire e’ prevista la pubblicazione di un altro piano solo che, dopo Scarlatti, ho dedicato a Bach ed Handel. Insomma i tempi delle uscite li decide la CAM.


 


Che differenze ci sono tra i due mondi jazzistici (italiano e americano), sia riguardo i musicisti che di pubblico?


 


Premetto che di solito il repertorio non lo scelgo il base al pubblico, ma in base ai musicisti con cui suono e seguendo la mia voglia di fare sempre cose nuove. Su questo sono molto “aristocratico”. Voglio suonare quello che piace a me, perche’ se piace a me piace anche al pubblico. So che questa e’ una filosofia che non va tanto di moda, sono molti quelli che preferiscono assecondare i gusti del pubblico per andare sul sicuro.


Ritornando alla tua domanda, ovviamente ci sono differenze di pubblico. Facendo un discorso piu’ ampio comincerei col dire che noi qui, dall’Europa, abbiamo una prospettiva erronea di tante cose. Anche la critica americana e il pubblico hanno una sensibilita’ di ricezione diversa da quella europea. In America vengono privilegiati i musicisti muscolari, forti. Ma la cosa forse piu’ importante e’ che loro, quando sei sul palco, vogliono lo show, tutto deve essere calibrato, senza pause o tempi morti. Il che e’ molto diverso dalle nostre abitudini. Noi ci prendiamo le pause, ci consultiamo spesso. A parte il fatto che per il pubblico e il critico americano l’europeo e’ l’ “esotico”. Loro, molto piu’ di noi, credono di essere il centro del mondo, dunque noi non esistiamo per loro. Questa e’ una cosa su cui riflettere anche dal punto di vista musicale. Basti pensare che ci sono musicisti grandissimi in Europa, penso per esempio ad un pianista come Martial Solal, che in America e’ praticamente ignorato, perche’ non vive li’. Petrucciani, per esempio, si guadagno l’attenzione della critica americana solo quando si trasferi’ in America.


 


Cosa si e’ scritto sui giornali americani dei tuoi concerti?


 


Sono stato presentato benissimo, ho avuto anche delle ottime recensioni. Ma ovviamente, ritornando all'”americocentrismo” di prima, considerando che Motian li’ e’ una leggenda, sembrava che il trio fosse il suo e che io l’accompagnassi. Ma questo e’ un dato culturale e non c’e’ da prendersela. Bisogna pensare al fatto che nessuno puo’ conquistare l’America, al massimo e’ lei che conquista noi. Se non altro per un dominio delle etichette discografiche, che hanno una forza che non esiste altrove.


 


Che strada sta prendendo il jazz in America, secondo te?


 


Bisogna distinguere tra New York e resto d’America. New York e’ la citta’ del jazz. Gia’ a Chicago pensa che ci sono solo un paio di club, a Los Angeles pure, e sono citta’ di milioni di abitanti. La vera musica americana e’ un’altra, il country, il pop, l’hillbilly… C’e’ sicuramente un nucleo forte di tradizione post bop, per intenderci, e’ quella la quercia dalla quale non si puo’ prescindere, e’ quello il loro suono, il suono americano ed e’ quello che il pubblico si aspetta. Poi c’e’ la sperimentazione dei quarantenni, come Dave Douglas, per esempio, e poi il gruppo nato attorno a John Zorn che mischia i linguaggi. Direi che dal punto di vista compositivo e’ certamente piu’ interessante l’Europa, piu’ propositiva, ma sconta il fatto di avere meno potere discografico e dunque di marketing.


 


Con “Plays Scarlatti” sei riuscito a mettere su disco una grande verita’, che non tutti i musicisti hanno ben chiara. Il legame stretto tra musica classica e improvvisazione, pratica per nulla considerata “blasfema” da tanti musicisti che oggi consideriamo “colti” (da Bach a Mozart) e che erano grandi improvvisatori.


Con “Plays Scarlatti” mi sono divertito e soprattutto mi sono stupito che nessuno l’avesse fatto prima, visto che Scarlatti di presta molto a questo tipo di operazione. Su Bach si sono cimentati in tanti. Io stesso avevo cominciato con Mozart, quando negli anni ’80 facevo un programma che si chiamava Impromozart. Questo progetto su Scarlatti invece ha avuto un seguito ben maggiore.


 


 


Come mai, secondo te, alle fine dell’Ottocento si rompe questo legame tra musica classica e improvvisazione?


 


E’ stato spiegato perlopiu’ come un fenomeno sociale. La borghesia nell’Ottocento diventa la principale destinataria della musica. Sono tante le famiglie borghesi che hanno il pianoforte a casa… anzi a questo proposito mi fai fare una riflessione che non avevo mai fatto prima… molte famiglie hanno il piano e fanno studiare il piano ai giovani di casa… forse da qui parte l’emulazione del cosiddetto “successo”…
Nella seconda meta’ dell’800 c’e’ la ragazza di buona famiglia che ha lo spartito con il “Sogno d’Amore” di Franz Liszt, che e’ un pezzo che ha avuto un grande successo, se non altro perche’ e’ stato stampato. La stampa era l’indice del successo di un pezzo. E allora scatta un fenomeno paragonabile a quello odierno con la musica pop, del suonare o riprodurre qualcosa di successo… e’ un fenomeno che esige la riproduzione di qualcosa che piace sempre nello stesso modo. Quando si suona una cover pop il pubblico esige che venga eseguita nello stesso modo dell’originale, nota per nota, inflessione per inflessione.


Se arriva un sassofonista bravissimo e vi inserisce anche una grande improvvisazione, questa provoca fastidio nell’ascoltatore, perche’ siamo dell’ambito della riproduzione, e’ fuori luogo.


E’ in questo ambito, quindi, che e’ scattata la condanna dell’improvvisazione. E’ stata tralasciata perche’ pratica di disturbo. Il “Sogno d’Amore” lo suona “meglio” chi si avvicina di piu’ all’originale.


 


Con l’improvvisazione non sei controllabile, puoi fare quello che vuoi. Anche se poi su questa idea e’ stato costruito un altro grande equivoco. Bill Evans, per esempio, nelle famose note a “Kind of Blue”, parla di una pratica cinese di disegno con inchiostro di china, ma ne parla per dire che ci vuole grande disciplina. Nell’improvvisazione paradossalmente ci vuole una straordinaria disciplina, perche’ ci vuole un orecchio interno, una fusione tra emozione, orecchio e mani tale da produrre un discorso sensato. Non e’ che va bene tutto. In questo senso il modo in cui l’improvvisatore entra nella musica e’ simile al modo di “partecipare” alla musica del grande pianista classico che interpreta Bach o Beethoven. Prendiamo il pianista Maurizio Pollini. Quando suona Beethoven esegue si’ musica scritta, ma nel momento in cui veramente vi entra dentro e lo interpreta sta praticamente suonando a orecchio. Quando un musicista fa veramente suo un pezzo, come un attore la sua parte, a quel punto non e’ piu’ solo una questione di quali note e quali parole, ma di come vengono riprodotte. Quando un pezzo anche scritto diventa mio, a quel punto io sto anche suonando a orecchio e sto anche improvvisando, cambiando una pausa, un’inflessione, e in questo senso ho massima liberta’.


 


 


Spesso gli insegnanti non sono in grado di insegnare e far capire quanto forte sia il legame tra musica colta e improvvisazione. I Conservatori, soprattutto in passato, hanno sfornato tanti esecutori, incapaci pero’ di capire in profondita’ quello che suonavano. Lo studio dell’armonia, delle modulazioni, delle singole cellule melodiche, cosa che avviene normalmente per uno standard, non avviene spesso per un pezzo classico.


 


 


Il mio percorso e’ stato molto particolare, ho avuto una “doppia vita”. Ho cominciato a suonare jazz da piccolo perche’ mio padre suonava jazz e c’erano tanti dischi in casa. Lui mi si metteva accanto e mi chiedeva di improvvisare. Io avevo grande facilita’ di lettura, ma non capivo come fare e solo con il tempo ho preso coraggio. Parallelamente andavo a lezione da una maestra “classica”, seguendo il corso di studi regolare. Queste strade sono sempre andate in parallelo e questa e’ stata una grande fortuna, perche’ l’improvvisazione mi ha sempre aiutato a capire quello che c’era nella partitura. Molte cose di Bach, di Beethoven, di Scarlatti, di Chopin vengono dalle mani e, smontando il giocattolo per conto mio, ho capito pure come erano costruiti gli altri giocattoli. Ho insegnato 25 anni in conservatorio e quando insegnavo le sonate di Beethoven o i preludi di Debussy questa capacita’ di smontare e capire dal di dentro il brano mi aiutava a spiegare come funzionava il pezzo dal punto di vista della forma, del discorso e anche dell’evoluzione armonica e melodica.


L’improvvisazione e’ uno strumento formidabile di comprensione della musica scritta. Dovrebbe essere materia complementare di insegnamento di qualsiasi strumento in Conservatorio. Cosi’ come io metterei l’insegnamento di Composizione Libera. Prima di studiare le miriadi di regole che regolano la composizione tradizionale, bisognerebbe lasciar liberi gli allievi di scrivere tutto quello che sentono, analizzandone le composizioni. Attraverso la scrittura si comprende meglio come funziona la musica, ma vedo che questa mia teoria non ha molto seguito. C’e’ un certo atteggiamento culturale che predilige come prima cosa l’affermazione della regola e la successiva correzione. Sara’ pure meno faticoso per chi insegna, ma e’ assurdo.


La teoria dovrebbe procedere di pari passo con la prassi, se non anche un pò dopo. Con i miei allievi cosi’ ho ottenuto buoni risultati. In caso contrario si rischia di deprimere gli allievi, dando loro una messe enorme di informazioni e di fatto bloccandone l’espressione.


 


Parliamo invece della tua ultima fatica in trio con Marc Johnson e Joey Baron. “Dream Dance” festeggia i 25 anni di questo trio, con il quale ogni disco rappresenta una sorta di otium di classica memoria e con i quali formi un corpo unico. Sembra proprio questa la tua dimensione ideale.
Un disco registrato nel 2004 per la verita’… come mai?


 


Si, e’ vero, anche se non so quanto ancora faremo insieme, visto che Marc non si muove piu’ tanto. E’ un ensemble nato per caso nel 1984, quando Marc e Joey erano in Italia in un tour con Kenny Drew che salto’, destino volle che mi incrociassi con loro e da li’ e’ nato il primo disco e tutta una storia lunga 25 anni che la CAM ha voluto celebrare con “Dream Dance”. Il fatto che le registrazioni siano del 2004 e’ legato alla politica di uscite discografiche che decide la CAM e sulla quale noi musicisti non abbiamo alcun potere.


 


Tra CAM (piu’ internazionale) ed Egea (piu’ attenta alla valorizzazione del territorio) quanto cambia il tuo modo di fare musica?


 


La CAM e’ piu’ “americana” e aperta ad un mercato internazionale, l’Egea piu’ mediterranea. Per un periodo si sono affiancate nel mio percorso, poi allontanate, e ora sto nell’area diciamo “americana”. L’Egea e’ stata una grossa esperienza perche’ mi ha stimolato a scrivere cose molto particolari, come “Racconti mediterranei” e “Les Amants”. Nel primo caso sono riuscito a far emergere un carattere che comunque era nelle mie corde, e sono emersi anche degli elementi che covavano sotto la mia musica, degli elementi folklorici, di cantabilita’, che abbiamo chiamato mediterranei. E un pezzo come “Canto Nascosto”, per esempio, ha sicuramente a che vedere col folklore romano. La collaborazione con Egea mi ha dato, inoltre, la possibilita’ di arrangiare i brani in maniera particolare. Alcuni pezzi senza batteria, per esempio, dunque senza l’elemento ritmico, puntando di piu’ al colore e alla melodia.


“Les Amantes” e’ stata poi una vera e propria sfida, perche’ non avevo mai scritto per quartetto d’archi, mi ha “costretto” a studiare le partiture di Brahams, Faure, Bach e Debussy.


 


I dischi per la CAM hanno certamente un altro mercato, meno condizionati forse, anche se pure con CAM ci sono stati lavori alquanto sperimentali, come il duo con Paul Motian in “Doorways”, per esempio, o “Duologues” con Jim Hall. In generale, pero’, si cammina di piu’ nel flusso “americano”, anche se ho estrema liberta’ compositiva e di scelta dei pezzi. Non ci sono condizionamenti, anche se si preferiscono formazioni piu’ tradizionali.


 


Ho letto in una tua intervista del tuo pensiero sulla spettacolarizzazione del jazz in TV, quella che tu hai definito “sindrome Valtur” che colpisce alcuni musicisti nostrani. Sinceramente un pò mi ha stupito, perche’ pensavo giudicassi positivamente l’approdo del jazz in TV, anche se per vie traverse… come inizio, voglio dire, a partire dal niente di prima…


 


Si, l’ho definita Sindrome di Valtur… volutamente, perche’ per me e’ una sindrome… Non c’entra nulla con la musica e non si fa un favore al jazz, che e’ meglio non (rap)presentarlo proprio, piuttosto che farlo male. Qui non si parla piu’ di divulgazione, ma di un’aberrazione e di disinformazione. Cosi’ si porta il pubblico ad aspettarsi una barzelletta invece che un pezzo o comunque si insinua l’idea che le due cose debbano procedere necessariamente di pari passo. Questo succede solo in Italia. Non ho mai visto Galliano, John Scofield, Joshua Redman, Meldhau accompagnare la propria musica da barzellette. Questa e’ una deriva assurda palesemente indotta dalla televisione e non c’entra nulla con la musica. E’ un modo di fare spettacolo che sacrifica per l’ennesima volta la musica. La vera “rivoluzione” sarebbe riuscire ad avere la forza di suonare jazz in contesti come quello televisivo, quella sarebbe vera divulgazione. Ma siccome non e’ possibile, a nulla vale comportarsi da giullare pur di far passare qualche frammento di musica… altrimenti comincia ad affermarsi l’idea che fare il buffone e fare jazz sono cose quasi coincidenti, con la musica che diventa parentesi o commento di qualcos’altro…


Questa cosa tra l’altro distrugge l’immagine che il jazz italiano e’ riuscita faticosamente a costruirsi negli ultimi anni e alla cui immagine hanno contribuito, bisogna dirlo, anche coloro che adesso si lasciano andare al connubio musica-barzellette. Ti garantisco che fino agli anni ’70 nel “resto del mondo” non pensavano assolutamente che ci fosse un jazz italiano.


Ci sono stati casi nel passato di musicisti come Franco Cerri o Nicola Arigliano che si sono fatti conoscere al grande pubblico attraverso la televisione in pubblicita’ o varieta’, ma non hanno mai mescolato quest’attivita’ con la musica. Oggi sta succedendo che il linguaggio e il delirio televisivo viene portato in qualsiasi situazione di spettacolo; pur di far successo se ne mutuano ritmi e strategie di comunicazione. Ma la televisione ha dei tempi diversi da quelli di un concerto live, non ha tempi morti ed e’ intrattenimento. La musica no….


 


Ritornando al jazz e a Bill Evans… dieci anni fa hai realizzato un libro e un doppio disco su Bill Evans, che e’ stato un successo in tutto il mondo. Un tuo modo per “studiare” e capire ancora meglio la musica di Evans.


Dopo dieci anni un nuovo tributo a Evans e un Convegno in occasione del trentennale della sua scomparsa.


 


La mia provocazione nel proporre questo convegno nell’ambito dell’Ischia Jazz Festival e al quale ho lavorato con Silvano Arcamone e’ semplicemente rispetto al momento storico attuale, che e’ talmente fatto di televisione demenziale che passa inosservato pure un anniversario come questo di Bill Evans, mentre se ne ricordano altri di portata culturale ben minore…
Ma facciamo un convegno per ricordare un artista caratterialmente opposto alla figura del personaggio di successo cosi’ come oggi e’ inteso… Era semplicemente un artista che cercava di raccontare delle storie attraverso la musica. Non e’ dunque un mio ritorno o un ripensare al personaggio, ma una provocazione per dire che oltre la buffoneria e la demenzialita’ esiste un altro modo di fare musica.


 


Come e’ cambiato Pieranunzi in questi dieci anni e quanto di Evans e’ ancora entrato nelle tue note?


 


Il mio modo di suonare e’ certamente cambiato perche’ si e’ evoluta la mia conoscenza sulla composizione, sull’arrangiamento. Ho scritto pezzi di varia natura, compresa la musica classica. Poi all’estero mi riconoscono una vena melodica che e’ tipicamente italiana, ma non e’ un problema che mi pongo io, piuttosto chi mi ascolta. Certamente ci sono delle influenze di altri musicisti, non escluso Bill Evans, che pero’ non e’ quella principale. Un pianista dal quale mi sembra di aver preso tanto per esempio e’ Chick Corea, al quale devo molto per la parte ritmica. Ma ho “derubato” molti altri musicisti, da Charlie Parker a Chet Baker. Ma spesso si viene giudicati superficialmente, magari perche’ serve un titolo ad effetto o un riferimento semplificativo. Nel mio caso probabilmente saranno stati gli occhiali o la riga a destra a far propendere i critici per il legame con Evans…


La mia svolta evansiana fu merito di Chet Baker. Quando cominciai a suonare con lui a 30 anni mi ritrovai di fronte ad uno che con due note faceva delle cose pazzesche e mi diede una specie di “shock” melodico. Cominciai un percorso di riduzione, perche’ come tutti i giovani musicisti ero molto prolisso, e scoprii Bill Evans e il valore dei silenzi e della nota a cui affidi tutto, il massimo dell’espressione con il minimo dei mezzi. Spesso basta la giusta intenzione a esprimere un suono unico e particolare. Il jazz ci da’ questa possibilita’ straordinaria e io cerco di non buttarla via.


 


 

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