esiste un jazz napoletano…

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E’ venuto a mancare Antonio Golino, il batterista piu’ carismatico del panorama jazzistico napoletano dal dopoguerra ad oggi, uno dei padri dell’importante scuola batteristica napoletana. Da diversi anni risiedeva a Brescia, dove aveva proseguito nell’attivita’ di insegnamento presso la scuola del figlio Alfredo.

Golino e’ uno di quei musicisti a cui la Napoli del jazz deve moltissimo. E’ lui che, insieme ad un poco nutrito manipolo di musicisti appassionati, come Lucio Reale, Willi Mauriello, Gege’ Munari, Mario Schiano e pochi altri, ha fatto conoscere ed attecchire le sonorita’ afroamericane a Napoli. Nella sua lunga carriera ha suonato con tutti i piu’ grandi jazzmen italiani, vantando anche collaborazioni con Chet Baker, Bill Coleman, Joe Anderson e altri…

Se provate a chiedere di lui all’ “oracolo” Google troverete poco o nulla, data la sua indole schiva. Ma lo  ritroverete nelle schede biografiche di decine di batteristi. E il suo nome in quei curriculum non e’ solo un lasciapassare per future collaborazioni, ma piuttosto sincero ringraziamento per gli insegnamenti ricevuti.

Qui di seguivo riportiamo un’intervista in cui ripercorre la parte iniziale della sua carriera negli anni ’50 a Napoli e dove emerge il Golino-pensiero sul jazz napoletano…

Tu sei uno dei decani del jazz italiano. Quando ti sei avvicinato al jazz?

L’amore per il jazz e’ nato parallelamente allo studio della batteria, che ho cominciato a suonare fin da piccolo. In Italia arrivavano i primi film americani che vedevano la partecipazione di molti jazzisti e io non me ne perdevo uno. Poi c’erano i dischi che mio fratello maggiore, appassionato quanto me, comprava, ma che arrivavano in Italia sempre con un certo ritardo. E prima ancora i V-Disc. La vera scuola per chi si avvicinava alla musica americana era solo l’ascolto. Com’e’ tutt’ora, del resto. Secondo me, le scuole di jazz non hanno molto senso. Quello che serve e’ solo l’ascolto; e, ovviamente, un’ottima preparazione strumentale. Il jazz e’ una musica che appena l’ascolti ti prende, non c’e’ nessuna scuola che ti possa far sentire quello che non senti. O che possa insegnare l’improvvisazione a chi non ce l’ha gia’ dentro.

 

Ben presto la musica divenne la tuaprofessione…

Gia’ a 16-17 anni mi potevo considerare un professionista. Suonavo per vivere, anche per via del fatto che in seguito a dissensi con i miei genitori andai via da casa. Musica da ballo per lo piu’, nei locali frequentati anche dagli americani, dove c’erano le  entraîneuses, per intenderci. E poi i matrimoni. Dunque poco jazz ma quando capitava l’occasione di suonare musica americana io mi buttavo. Del resto con il jazz non si viveva certo. E in parte la situazione non e’ cambiata. Anzi chi si dichiarava jazzista non e’ che fosse visto tanto di buon occhio da parte degli altri musicisti che frequentavano la Galleria Umberto I, luogo «storico» degli artisti napoletani. Era considerato un esaltato, una prima donna, «vuole fare il jazz, suona forte» dicevano. Ma, secondo me, in fondo c’era una sorta di invidia da parte di chi non aveva le capacita’.

 

Quali erano i rapporti con i tuoi colleghi jazzisti napoletani

Ero molto amico soprattutto di Willi Mauriello, in assoluto uno dei migliori chitarristi italiani di allora. Ma per il suo stile lo sarebbe stato ancora oggi. Secondo me era superiore anche a colui che era il chitarrista jazz italiano per eccellenza, Franco Cerri. La sua sfortuna fu quella di nascere a Napoli, piuttosto che al Nord. Purtroppo per problemi di salute non pote’ dedicarsi totalmente alla musica. Si trasferi’ a Milano ed entro’ a lavorare alla Cirio. Ma arrivo’ ormai troppo tardi per emergere.

I migliori erano i fratelli Reale, i Munari. Spesso sostituivo Gege’ Munari nell’orchestra del fratello Armando, che era sassofonista e violinista. Aveva un’orchestra da ballo e mi ricordo che sostituii Gege’ anche in una tourne’e in Germania. Mi fu comunicato all’improvviso ma fortunatamente il repertorio era conosciuto e non ci fu bisogno di prove.

Contrabbassisti non ce n’erano. Napoli ha sempre avuto questa carenza. C’era Lillino Boccalone, era l’unico ma non era un musicista eccelso. Fortunatamente oggi la scena e’ cambiata. Ci sono contrabbassisti campani molto bravi, per certi versi anche superiori a musicisti italiani che sono diventati ingiustamente dei veri e propri miti.

Mi ricordo di Renzo Arbore, un tipo molto musicale. Era uno di quelli che poteva, se avesse studiato adeguatamente, fare molta strada. Ma ando’ a Roma e scelse altre strade. Viceversa e’ il suo modo di presentare il jazz, cosi’ come la canzone napoletana, in televisione o in giro per il mondo che non condivido molto.

Anche Mario Schiano era gia’ allora un ottimo musicista. E anche per lui ci sono dei «se» e dei «ma». Prima di abbandonarsi anima e corpo al free suonava jazz tradizionale e probabilmente se avesse perseguito quella strada oggi chissa’ dove sarebbe…! Aveva grossi limiti strumentali dovuti forse al poco studio, ma era jazzista dentro, aveva una bella sensibilita’ ed un ottimo orecchio musicale. Ma poi si innamoro’ del free

 

A proposito di Schiano, proprio lui mi ha raccontato che provo’ a convincerti a partecipare al primo Festival di St. Vincent del 1960, ma che non ti lasciasti persuadere…ando’ proprio cosi’??

Mi ricordo perfettamente come ando’… e forse, a tanti anni di distanza, posso finalmente dare una risposta alle domande di Mario. In realta’ non rifiutai l’offerta per presunzione. Ricordo l’incontro con Schiano e Giuseppe Parente. Inizialmente accettai, ci mettemmo d’accordo su tutto. Ma poi proprio nel periodo in cui era programmato il festival fu organizzato anche il mio matrimonio… Fui costretto a chiamare e disdire. Forse Mario non mi credera’, ma lo considero ancora oggi uno degli errori piu’ grandi della mia vita artistica.

Al Festival di St. Vincent andai comunque l’anno dopo, nel 1961. Con me c’erano Mauriello, Gloria Christian e Lillino Boccalone. In realta’ fu invitata Gloria e fu lei a formare il gruppo. Ando’ discretamente, anche se avevamo un po’ la pecca del basso, soprattutto sui tempi veloci.

 

Che spazio aveva il jazz a Napoli? E com’era l’organizzazione dei concerti?

Non c’era un’attivita’ fiorente. Perlomeno non c’era una programmazione continua. Venivano organizzate di tanto in tanto delle serate. Credo che i vari locali nati nel dopoguerra fossero gestiti per la gran parte dagli italiani ed erano frequentati anche dagli americani. Non si suonava molto jazz, ma piu’ che altro musica da ballo. Gli americani suonavano poche volte. Poteva capitare che si portavano dietro lo strumento e suonavano, ma nessuno di loro era professionista. C’era per esempio il batterista Fred Buda che suonava molto bene, ma allora era ancora un dilettante. E il trombettista Donald Curry, che ovviamente emerse subito in una citta’ carente di trombettisti. Erano dilettanti nel proprio paese, ma di un livello molto alto rispetto ai musicisti italiani.

Sicuramente le serate migliori furono quelle organizzate dal Circolo Napoletano Del Jazz al Circolo della Stampa. Ma piu’ in generale non c’era nulla di organizzato, per questo non c’e’ mai stata un’attivita’ jazzistica vera e propria. Qualche locale tentava la strada del jazz con qualche serata, ma non e’ cosi’ che si crea un movimento e ovviamente la cosa finiva li’.

Piu’ in generale, non penso granche’ bene di chi si occupava dell’ organizzazione di eventi jazzistici in quegli anni. Io poi mi sono affacciato al jazz quando il Circolo Napoletano Del Jazz sparava ormai le sue ultime cartucce. I soci erano quasi tutti appassionati, appartenenti all’alta borghesia napoletana, per loro era solo un hobby. Per me era un periodo nero: ero andato via di casa, mi ero sposato, la professione non andava bene. Ma io dico perche’ voi appassionati non pensate che c’e’ gente che fa la fame? Mi chiedo perche’ chi aveva le possibilita’ economiche non ha mai pensato di aprire un locale per suonare jazz tutte le sere. Il jazz non lo puoi fare una volta ogni 15 giorni. Di questo se ne discuteva anche allora, ma ogni volta che si affrontava questo argomento tutti nicchiavano. Allora devo pensare che non ci fosse vero amore per il jazz, ma era solo una moda. C’era, ma ancora oggi non e’ del tutto sparita, la mentalita’ che l’artista non deve guadagnare, anche se, a dire il vero, per i musicisti che venivano da fuori i soldi c’erano sempre… Solo Franco Vaccaro aveva la giusta mentalita’ jazzistica e la sua morte prematura fu sicuramente una grave perdita sia per i soci del Circolo Napoletano Del Jazz che per i musicisti.

 

Quando si puo’ cominciare a parlare di attivita’ jazzistica a Napoli?

Di attivita’ jazzistica si puo’ parlare con i concerti organizzati alla Birreria Kronenburg, diciamo a partire dai secondi anni Settanta. Ci fu da subito una grande risposta di pubblico. La sera bisognava chiudere i cancelli per la folla. Sulla scia di questo successo altri locali cominciarono a programmare serate di musica jazz, ma una volta ogni settimana o ogni 15 giorni. E per me questa non e’ vera attivita’, se non suoni tutte le sere… Lo Shaker di don Angelo Rosolino o il Rosso e Nero erano locali dove si faceva musica da ballo, casomai suonata da chi conosceva il jazz e ogni tanto ci infilava il pezzo giusto. Ma erano night club.

 

E dei musicisti stranieri e italiani passati per Napoli che ricordo hai?

Gli stranieri furono pochi e spesso mal pubblicizzati. Forse non c’era nemmeno la cultura giusta (e i soldi). Mi ricordo che Armstrong al Politeama fu un mezzo fiasco. Suono’ anche la seconda sera perche’ la prima avevano venduto solo una decina di biglietti.

Fui presente anche alle esibizioni del MJQ al Delle Palme e del Jazz at the Philarmonic al Politeama, mentre Bruebeck suono’ alla NATO solo per gli americani. Piu’ o meno nello stesso periodo suono’ al Delle Palme un quartetto con Kenny Clarke, Martial Solal, Lucky Thompson (ten, sop), Pierre Michelot (cb) che veniva direttamente dalla Francia. Sicuramente non posso dimenticare l’esibizione di Chet Baker allo Shaker. Si decise che l’avrei accompagnato io e fu una cosa molto gratificante per me che ero giovanissimo. E Chet fu molto contento di me e Lucio Reale.

Con gli altri jazzisti italiani non c’era quella sudditanza musicale che si puo’ immaginare. I musicisti napoletani erano molto apprezzati. Per esempio con Valdambrini ci fu subito una grande intesa. Lo conobbi proprio a Napoli e diventammo subito molto amici. Ma anche con Basso e Piana. Ma purtroppo non c’erano scambi. Nessun musicista napoletano, sebbene bravo, veniva chiamato a suonare da Roma in su. A meno che non decidesse di trasferirsi stabilmente al Nord, allora era senz’altro apprezzato.

 

Napoli era fuori dal giusto giro. E oggi quanto e’ cambiato?

Si’, Napoli era fuori dal giro. Ma in un certo senso lo e’ ancora oggi. Colpa anche dei musicisti e di una certa mentalita’. In Campania oggi c’e’ gente che suona davvero bene, ma c’e’ sempre una sorta di sudditanza. L’errore e’ principalmente dei musicisti che quando si vanno a proporre ai locali, per rendersi forse piu’ credibili, cercano la partecipazione col musicista del Nord che va per la maggiore e «c’ha il nome». Quegli stessi musicisti che non hanno mai ricambiato il favore invitando i napoletani a suonare nei loro giri. Dovrebbe funzionare che io chiamo te e tu poi chiami me. Se la cosa e’ a senso unico si rivela una specie di suicidio. Addirittura ci sono musicisti che si sono ridotti la paga per far venire nomi altisonanti da fuori, per poi non essere mai ricambiati dagli stessi. Ne’ nelle serate, ne’ nei dischi. Questo significa che mancano di dignita’, e non solo artistica: e’ mancanza di sicurezza nei propri mezzi.

Negli 8 anni in cui mi sono occupato della gestione artistica dell’Otto Jazz Club di Napoli non ho mai fatto venire nessuno musicista da fuori e ho sempre riempito il locale. Anche se e’ improprio distinguere Nord e Sud, si dovrebbe parlare di giri musicali diversi. Voglio dire che non si possono mettere sul piedistallo jazzisti meglio «pubblicizzati» rispetto ad altri spesso anche piu’ bravi.

 

Dunque il problema di Napoli sta tutto nelle programmazioni?

A Napoli c’e’ un potenziale musicale altissimo che non e’ stato e, secondo me, non sara’ mai espresso pienamente. Anche la situazione dei jazz club, escludendone solo qualcuno, non e’ delle migliori. Spesso la programmazione e’ fatta da gente che non ci capisce piu’ di tanto. In verita’ anche da Roma in su attualmente e’ cosi’.

E poi ormai c’e’ una concorrenza spaventosa. Le numerose scuole di jazz hanno messo idee strane a tanta gente. Quando esce un musicista di talento da una scuola, non e’ tanto merito della scuola quanto del suo talento. L’aver studiato con quello o l’altro musicista non forma di per se’ un jazzista. Ma alla fine tutti quelli che hanno studiato vogliono suonare. Ma io dico che il jazz non e’ musica di massa e mai lo sara’. A differenza di quanto molti pensano non lo e’ nemmeno in America. E’ una musica d’arte, e’ un linguaggio. Come Mozart o Beethoven.

Sempre piu’ spesso, poi, accade che molti americani vengono a sbarcare il lunario in Europa e in Italia. E gli si aprono tutte le porte, in ossequio al mito dell’americano che suona il jazz. Ma in Italia ci sono jazzisti superiori a questi presunti miti e non e’ giusto che questi vengano a prendersi compensi che spetterebbero a nostri musicisti molto piu’ capaci.

 

Ma forse ultimamente qualcosa sta cambiando. Penso anche ai tanti festival estivi che dovrebbero fare da traino e da vetrina in vista dell’attivita’ invernale.

Tutto il denaro pubblico impiegato nei festival dovrebbe essere speso per i musicisti italiani o per gli stranieri che contano davvero. Altrimenti sono soldi spesi male. A tutt’oggi gli unici che guadagnano davvero da queste «operazioni culturali» sono le istituzioni e i musicisti stranieri. Per le forze vive ci sono solo le briciole. C’e’ crisi, certo, ma una parte di colpa la do anche ai jazzisti bravi che hanno poca dignita’. Non e’ possibile incidere decine di dischi, spesso anche a proprie spese, e poi suonare nei locali sempre per la stessa cifra…

 

 

Tratto da “Il jazz a Napoli dal dopoguerra agli anni Sessanta”, Guida Editore
Intervista del 6 dicembe 2003.

 

 

Renzo Arbore qualche anno fa su Antonio Golino: “…Antonio Golino era la grande disperazione dei gestori dell’USO, sempre preoccupati che, con il suo modo di suonare, «eccitasse» troppo i neri. Suonava forte, in modo viscerale, alla Art Blakey, incurante della formazione. Ed era un po’ inviso alla dirigenza dell’USO, perche’ quando attaccava gli assoli gli americani si sfrenavano e facevano volare i cappelli. Ma anche i napoletani non riuscivano a star fermi. L’USO era una piccola America, si bevevano bibite americane, si «parlicchiava» inglese. E ancora ho berretti e impermeabili da ufficiale che mi vendevano gli inservienti del locale a prezzo irrisorio, quando i militari li dimenticavano. La’ facevamo un repertorio misto: cantavamo in un inglese approssimativo gli standard americani, ma eseguivamo anche le canzoni di Modugno, per esempio. All’USO cantavo e suonavo un «finto» contrabbasso, a tre corde, che affittavo prima della serata.

 

Un episodio che mi piace ricordare e’ relativo ad un concerto al Circolo della Stampa. In quella serata Golino suonava in un gruppo composto da Lucio Reale, Lillino Boccalone e Gloria Christian, che secondo me era la migliore cantante di jazz italiana. La Christian comincio’ Too Marvelous for Words. Sussurro’ la canzone, sostenuta da pochi accordi del piano. Un’interpretazione molto sentita e delicata. E c’era Antonio dietro che fremeva, con le bacchette in mano, senza poter intervenire… Gloria ando’ avanti per tutto il tema fino al finale rubato. Golino, che a quel punto avrebbe dovuto staccare il tempo per l’ingresso degli altri strumenti, apri’ sganciando una bacchettata colossale sul rullante che a tutti sembro’ uno sparo, un colpo di fucile, tanto che tutti si alzarono in piedi guardandosi attorno, e poi sornione riprese il tempo con le spazzole… Questo per sottolineare la passione viscerale di Golino, che avrebbe suonato ovunque anche gratis.”