Andrea Pozza e’ uno dei pianisti piu’ “illuminati” e, secondo noi, sottovalutati del panorama jazzistico italiano. L’abbiamo incontrato alle Cantine dell’Arena a Verona in occasione di un suo concerto in quartetto con Emanuele Cisi, Massimiliano Rolff e Enzo Zirilli.
S.C. Guardando alle tue collaborazioni saltano agli occhi nomi importanti italiani e stranieri. Raccontaci una qualita’ di Rava e una di Grossman.
A.P. Allora…. una qualita’ di Rava e’ sicuramente il lirismo e la capacita’ di comporre bellissime melodie che ti fanno sentire contemporaneamente la sua cultura melodica italiana e quella piu’ jazzistica americana. Di Steve Grossman, direi sicuramente il timing e il linguaggio personale nella tradizione jazzistica. Steve ha la capacita’ di farti sentire il sapore della musica jazz dalla prima nota che suona all’ultima, anche se sei a San Giovanni in Persiceto ti ritrovi immediatamente con la mente a New York negli anni d’oro dell'”hard bop”.
S.C. E un dono, in termini di “apprendimento” o “nutrimento” musicale, che ti e’ stato fatto da entrambi?
A.P. Da Enrico ho avuto molti stimoli ad uscire dagli schemi abituali e a rischiare, buttandomi nel vuoto… Da Steve ho assaporato, e tutt’ora assaporo quando ci suono insieme, lo spirito piu’ vero e puro della musica jazz, lo swing, il blues.
S.C. Un musicista con cui vorresti o avresti voluto suonare?
A.P. Ce ne sono tanti…. Louis Armstrong, Roy Eldridge, Paul Gonzalves, Coleman Hawkins, Philly Joe Jones, Paul Chambers, Roy Haynes… e tantissimi altri….
S.C. Cosa ti ha dato studiare in conservatorio? E cosa di quest’esperienza formativa tieni dentro la tua carriera attuale?
A.P. Mi ha dato molto dal punto di vista tecnico e poco da quello strettamente musicale.
L’ impostazione tecnica che ho avuto e’ stata ottima e mi aiuta tantissimo ancora adesso. Dal punto di vista musicale trovo invece che l’attuale insegnamento della musica classica sia molto poco coinvolgente nei riguardi del materiale musicale stesso. Si insegna cioe’ l’interpretazione ma non la musica. Le due cose invece dovrebbero convivere. Infatti tutti i grandi musicisti classici che conosco sanno bene cosa stanno suonando, alcuni sanno anche improvvisare nello stile dell’autore che stanno suonando. Ma lo fanno per dote naturale, non perche’ gli sia stato insegnato a scuola.
S.C. Hai mai vissuto lontano dall’Italia? o l’esperienza concertistica e’ bastata a darti una panoramica di cosa e’ il jazz fuori dal Bel Paese?
A.P. No, ho sempre vissuto in Italia, ma girando molto anche per periodi di un mese. Cosi’ mi sono fatto un’ idea di come “funziona” negli altri paesi. Sicuramente in quasi tutta Europa la cultura jazzistica e’ piu’ diffusa, almeno nel senso che il jazz si insegna nei conservatori da piu’ tempo e da piu’ tempo viene considerato come la forma d’arte musicale che ha caratterizzato il XX secolo. In Italia purtroppo la maggior parte degli insegnanti di musica classica non ha mai ascoltato un brano di Duke Ellington o tanto meno di Charlie Parker.
S.C. Cosa pensi del jazz europeo e delle sue contaminazioni attuali?
A.P. Penso e spero che si parlera’ sempre meno di jazz europeo. Io credo che il jazz sia una lingua musicale, nata negli Stati Uniti intorno al 1900 dall’unione o contaminazione tra la cultura musicale dei musicisti afroamericani e la cultura musicale europea. Con la globalizzazione ogni musicista potra’ dare il contributo a questa lingua e sempre piu’ ci avvicineremo ad un jazz mondiale; e questo sta gia’ succedendo… Io personalmente amo molto il jazz americano carico di swing, blues e feeling, e come musicista europeo mi piace tenermi vicino sopratutto a quella tradizione ritmica americana. A volte si identifica il jazz europeo come una musica piu’ “colta”, cerebrale e meno legata allo swing. In questo senso non mi piace molto, mi annoia rispetto all’impatto ritmico della tradizione jazz americana.
S.C. Secondo te si puo’ fare quest’affermazione: “suonare pop o musica popolare balcanica in chiave jazz e’ un surrogato musicale per nascondere la difficolta’ di dar nuova voce ad un genere piu’ che esplorato nel tempo”?
A.P. Quando si fanno contaminazioni di proposito e’ sempre un pò rischioso, nel senso che ci vuole tempo perche’ le due o piu’ lingue si mescolino e arrivino a formare qualcosa di nuovo ma pur sempre armonico. I linguaggi che si fondono richiedono tempo per armonizzarsi tra loro. Quindi direi che dipende sempre da chi fa cosa: se sono grandi musicisti della musica balcanica e grandi musicisti jazz che si uniscono, ne uscira’ sicuramente qualcosa di bello; viceversa se i musicisti sono scarsi il risultato sara’ comunque scarso. Tornando all’affermazione, la contaminazione fa parte dell’esplorazione stessa del genere. Si tratta di cose che sono sempre state fatte, pensiamo a Duke Ellington, a Coltrane, Dizzy Gillespie, hanno tutti introdotto nel jazz elementi di altre culture musicali, dai ritmi cubani, alle scale indiane ecc. Si’, dipende sempre da chi fa cosa e non dalla cosa che viene fatta.
S.C. Nel tuo ultimo disco con Andrea Celeste, “Enter Eyes”, ci sono molti tuoi pezzi, cosa ti ispira quando componi e cos’e’ per te la composizione?
A.P. La composizione e’ divenuta per me, sempre piu’ importante negli ultimi anni. È anche una cosa un pò magica a volte, nel senso che mi capita di sedermi al piano e …sbam!… arriva un’idea. E poco dopo c’e’ un nuovo brano che prima non c’era, ed io non so proprio da dove e’ arrivato… mi lascia di stucco… A volte e’ piu’ sofferta, magari scrivi una riga poi non ti viene piu’ nulla, ci soffri un pò, lasci li tutto e la continuazione ti viene magari dopo una settimana o un mese… A volte immagino una scena, come fosse un film, oppure immagino di salire sul palco e di suonare qualcosa che esprima come mi sento in quel momento, e suono componendo allo stesso tempo…
S.C. Qual e’ la prima cosa che ti passa per la testa la mattina quando ti svegli?
A.P. Spesso a qualcosa di musicale, magari da provare al piano, a volte anche prima del caffe’….
S.C. Il quartetto con Rolff cosa rappresenta nel tuo percorso professionale?
A.P. E’ un’interessante collaborazione con musicisti che stimo e con i quali mi trovo bene sia musicalmente che umanamente. Per me e’ sempre un bello stimolo suonare musica originale di altri, in questo caso di Massimiliano, perche’ mi costringe ad inventarmi qualcosa di nuovo, a coordinare le mie capacita’, ad accordarmi con gli altri musicisti della band. Un grande stimolo che paga bene gli sforzi fatti.
S.C. Cosa ti ha spinto ad accettare questa collaborazione?
A.P. Vale la risposta precedente, cui aggiungo il fatto che mi sono piaciuti i brani di Massimiliano e che mi trovo benissimo personalmente con gli altri partners del progetto.
S.C. Se un ensemble fosse il sistema solare, cosa sarebbe il pianoforte?
A.P. Beh, darei il ruolo di sole, cioe’ energia, alla batteria e al contrabbasso. Forse il piano potrebbe essere la terra, che da il senso armonico e il solista puo’ essere un altro pianeta o una cometa che apporta qualcosa di spettacolare ed inaspettato… In realta’ il bello della musica jazz e’ proprio il fatto che i ruoli si scambiano spesso nel procedere della musica, e quindi tutto poi si mischia e anche queste metafore astronomiche prendono altre connotazioni.
S.C. Con quale elemento di un ensemble faresti un duo?
A.P. Con tutti! Ne ho fatti con solisti e bassisti, mai con batteristi. Ma nel jazz e’ prassi comune, quindi e’ una mia lacuna, e la colmerei molto volentieri.
S.C. Le tue prossime “idee creative”?
A.P. Ho in progetto un quintetto europeo formato da due musicisti olandesi (Dick De Graaf al sax tenore e Jos Machtel al basso) e da due inglesi (Christian Brewer al sax alto e Shane Forbes alla batteria). Sono tutti musicisti con i quali collaboro da anni e coi quali mi trovo a meraviglia musicalmente. La musica sara’ curata da me e da Dick e le composizioni originali tratte a volte da temi della musica classica. Ho appena inciso due cd in trio per la Dejavu Rec con Aldo Zunino al basso e Shane Forbes alla batteria. Piu’ in generale mi dedichero’ sempre piu’ alla composizione.
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Andrea Pozza: www.andreapozza.it