Si intitola “Di notte in giorno” il nuovo disco di Alfonso De Pietro che in rete e in radio si lancia con il singolo che segna a fuoco un leitmotiv antico di generazioni ma soprattutto prezioso più del vil denaro: “La Memoria”. Perché sulla memoria si fondano i principi e le basi per ricostruire e per dar forza alle nuove generazioni in debito con la vita per i reati prodotti e perpetrati dalla Santa Mafia di questo paese. Un lavoro patrocinato dall’Associazione Libera e presentato da Don Luigi Ciotti. Un disco di musica pop d’autore che però porta con se il carico di grandi messaggi che De Pietro veicola con gusto tra metafore e romanticismo, tra dure realtà e poche altre variazioni sul tema. E come accade in questi casi, l’approccio è quello solare di speranza e di rivoluzione. Anche se poi il disco si chiude e con una vena di malinconia durante l’elegante “Lunga è la notte” quasi in antitesi con il titolo del disco stesso.
“Di notte in giorno”. Un titolo di speranza. Un disco di speranza?
Credo di sì. Ogni canzone rimanda, in fondo, ad un orizzonte aperto sul cambiamento. Urgente e necessario. Anche quelle in cui ho raccontato i sacrifici dei martiri della giustizia quali Rita Atria, Giancarlo Siani, Lollò Cartisano, contengono la traccia luminosa di un ideale che rimane oltre le vite dei protagonisti e fa da guida, illuminando le coscienze di coloro che vorranno accoglierlo. Un passaggio necessario e vitale, quello dall’ombra alla luce di un futuro migliore sognato e costruito ogni giorno, che ha bisogno dell’impegno di ciascuno: “forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare, forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo…”. Queste le parole di Rita Atria, testimone di giustizia, dicassettenne, che ho riportato nell’inciso de “La canzone di Rita”. E consiglio vivamente di cercare e conoscere questa storia per non smettere di nutrirci di sogni e di speranza. Senza, rischieremmo di spegnerci.
“La memoria” nelle nuove tecnologie di oggi è più al sicuro secondo te?
Certo, abbiamo a disposizione un archivio virtuale straordinariamente ricco, per cui possiamo esercitare curiosità ed interesse ad approfondire la nostra storia collettiva. Tuttavia, è necessario sviluppare capacità di discernimento e di critica, di autonomia di pensiero che ci permetta di essere liberi, nella riflessione e nel giudizio. Lo so, è complesso, faticoso, richiede tempi che non riusciamo più a concederci, prigionieri nel vortice di una vita ad alta velocità, una delle caratteristiche del mondo contemporaneo. Ma continuando a semplificare, a non porre attenzione, a non riflettere, ad abbreviare, a consumare informazioni (e non solo) fagocitando e digerendo tutto in un momento, per la fretta di “apparire”, credo che si rischi di smarrire la capacità di “essere”. In una parola: la nostra umanità.
Jazz e canzone d’autore: come mai questo connubio per tematiche così poco “jazzistiche”?
Non mi pongo mai in maniera troppo cerebrale di fronte alla creatività. Né mi lascio imprigionare da schemi consolidati. Il mio spirito è libertario. Ogni volta sento il bisogno di superare quanto già esplorato e cercare stimoli nuovi. E mi piace agire istintivamente lasciandomi guidare dalle canzoni che vanno nascendo e da quello che esse stesse “chiedono”. Molto spesso l’incipit lo danno le parole e le tematiche che sento il dovere di portare innanzitutto alla mia attenzione. In quelle cerco di cogliere la musicalità che già hanno dentro, rispettando le loro motivazioni profonde, nella metrica e nei significati. E, spessissimo, l’ispirazione è urgente e travolgente e di getto nasce una canzone. È il caso in cui le parole della musica le trovo nella musica delle parole. Sono già lì. Basta assecondarle ed accoglierle. Altre volte, invece, parto da una sequenza armonica e melodica che comincia a farsi strada, ma sempre legata già ad immagini e contesti verbali. Perciò, credo che quelle che tu definisci “tematiche così poco jazzistiche”, semmai, in questo caso, possono essere l’occasione per avvicinare l’ascoltatore jazz a determinati argomenti e, viceversa, far scoprire all’ascoltatore che privilegia certi contenuti che anche il linguaggio jazz può declinarli.
Tante collaborazioni in questo disco: ci ricordi le principali?
Le collaborazioni sono frutto sempre di una relazione umana che attivo con chi condivide questo mio percorso, non solo artistico e professionale (come educatore), ma di vita. Innanzitutto con i miei musicisti, jazzisti affermati: Piero Frassi, Andrea Melani, Nino Pellegrini, Dimitri Grechi Espinoza ed Alessio Bianchi, con la partecipazione straordinaria di Michela Lombardi (che a loro volta vantano collaborazioni con nomi del jazz nazionale ed internazionale quali Bollani, Rava, Lee Konitz, Phil Woods, Gianmarco, Tommaso, Urbani, e molti altri). E come non essere orgogliosi di una presentazione di don Luigi Ciotti, a cui mi lega affetto e stima. Con lui e con Libera, che ha patrocinato il disco, continuiamo a camminare insieme…
Musica con forti scopi sociali. Come accadeva un tempo per le origini della musica popolare. Oggi che effetto raccoglie la musica come veicolo di messaggi sociali?
Preferisco non parlare di “messaggi”, ma di storie civili e sociali. La poesia per il Pascoli era guardare ed ascoltare. Quindi sento il dovere morale di raccontare e cantare quello che ci circonda, semplicemente. Senza retorica e senza pontificare, dato che ho più dubbi che certezze. Posso condividere domande, non dare risposte. Né messaggi. L’effetto è tanto interesse e coinvolgimento, curiosità. Qualcuno torna a casa, dopo un concerto ed il giorno dopo ti scrive: “Non sapevo chi fosse don Peppino Diana. Dopo aver ascoltato la tua canzone, ho cercato la sua storia ed ora so…”. Ecco. Ho raggiunto l’obiettivo. Poi è chiaro che ciascuno liberamente gestirà l’emozione suscitata: indifferenza, rabbia, commozione o altro. Poi, a questo si affianca un apprezzamento della cifra stilistica musicale e della performance live, e quindi vuol dire che la strada è quella giusta. In tutti i sensi!
La Mafia di ieri la conosciamo. Quella di oggi la viviamo. Domani?
E chi può dirlo?! Certo, studiando la tendenza, dovremmo prefigurare le mafie sempre più inserite nel sistema politico, economico e sociale. Per dirla con don Luigi Ciotti “le mafie non sono un mondo a parte, ma parte del nostro mondo”. Ne consegue, che dobbiamo fare i conti con una loro capacità di adeguarsi ed adattarsi ai cambiamenti, persino cogliendo opportunità di radicamento in ogni settore della vita pubblica (anche nella musica, vedi alcuni casi di neomelodici o musica tradizionale), prima e meglio delle organizzazioni legali. Ma credo che si debba affrontare prima di tutto la questione culturale: “la mafia teme più la scuola che la giustizia” sosteneva il giudice Caponnetto e Gesualdo Bufalino, poeta e scrittore siciliano, parlava di un esercito di maestri elementari per sconfiggerla. È la mafiosità dei nostri comportamenti ad alimentarla. La cultura, l’arte in generale, possono agire e contribuire alla crescita della sensibilità e della consapevolezza di cittadini attivi, non più sudditi. E poi c’è la questione dei diritti, del lavoro, della giustizia sociale, della dignità umana, ancora fortemente compromessa in questo nostro Paese, che Paolo Borsellino definiva “disgraziato”. Ma, anche in suo nome, (r)esistiamo, cercando di non cedere mai al male peggiore di tutti i mali: la rassegnazione.