Uno sguardo nelle sue “Stanze”

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Facciamo un giro più approfondito nelle stanze di LEDI. Una frase metaforica che però a pieno lascia comprendere quanto sia intimo e personale lo sguardo di questo disco e di questo cantautore che proviene dall’Albania di Tirana ed è ormai genovese da sempre. Lo incontrammo per il suo esordio e ora ce lo ritroviamo più maturo, meno scontato, più elegante e soprattutto più reale. Ed è bello ed è istintivo questo suono meno digitale, suonato e lasciato anche con i contorni sbavati appena, come il pianoforte della title track del disco o certi suoni di voce come in “Occhi di nebbia” che sembrano appunto lievemente distorti o appena nebulosi di acqua. O come il mix di batteria di “Palazzine” che pare annaspare col fiatone alla ricerca di luce… che poi LEDI è capace di farci sospendere di poesia come fanno bene gli armonici della bellissima “Volare via” e poi molto ci fa mangiare il cemento dei quartieri popolari quando suona “Domenica”. Si ha forte l’impressione di avere attorno una scrittura che lascia le forme canoniche e cerca espressione in altro. Sottili differenze, immense distese di lontananza dal banale pop. Quanto basta per richiederci l’impegno e l’ascolto: ricetta ovviamente demoniaca in un presente di immediatezze narcotizzanti. Il disco di LEDI richiede tempo. E lui il tempo l’avevo cantato bene in un disco d’esordio che da subito aveva fatto capire che aria tirava tra Genova e Tirana. In rete il video di lancio: dategli occhio e capirete.

 

 

“Stanze”. Così all’impronta quanto intimismo e solitudine c’è in questo disco?

Molto, di entrambi. Non ritengo sia giusto scrivere di ciò che non si sia sperimentato, vissuto, ed io vivo dentro, per cui non posso che parlare di questo…

 

Ricordo “Cose da difendere” con molto piacere e gusto. Scopro che qui c’è molta meno elettronica o sbaglio?

Si volevo fare un disco interamente suonato, per due motivi: il primo è che non lo avevo mai fatto e lo consideravo un passaggio essenziale nella vita artistica. Lo studio acquista significati molto potenti e ti mette di fronte al parto proprio per immersione. Il secondo è perché ha un calore diverso, senti di più le mani addosso.

 

Mi colpiscono due cose assai particolari: la prima è questo cameo dedicato a Battisti e la seconda è il suono di pianoforte proprio del singolo “Stanze” che ha una forma molto sghemba direi quasi. Come mai queste due scelte?

Volevo che ci fosse una sorta di preghiera pagana, un passaggio di storia della musica interpretato in un’intimità quasi annebbiata. “I giardini di marzo” è una delle espressioni più alte della storia di questo paese e volevo, con molta umiltà omaggiarlo in quanto perfettamente in linea con il messaggio complessivo del disco. Sul

pianoforte di “Stanze” invece volevo esprimere una persona sola che suona il suo pianoforte di casa, quello da pochi soldi, un po’ scordato, pieno di polvere. Quello che suoni malissimo ma su cui hai scritto tante canzoni per te di valore, dove ti ci siedi la sera bevendo qualcosa e cantando le canzoni di Battiato e di De Andrè. In fondo “Stanze” parla anche di questo.

 

Così come mi incuriosisce sempre nel disco quando trovo tracce di pochi secondi che si titolano “Intermezzo”. Perché questo bisogno che musicalmente può avere poca importanza?

Questa domanda è molto ficcante perché in effetti mettere un pezzo di un minuto solo voce e chitarra non aggiunge molto ma, a mio avviso, è meglio essere ficcanti in un minuto che dispersivi in tre ed intermezzo è proprio un intermezzo che traghetta da una parte all’altra del disco esprimendo un solo concetto, ma in maniera chiara.

Ed è assai interessante anche la copertina di questo tuo secondo disco. Sei sempre molto molto legato alle visioni metropolitane o sbaglio?

Sì, sono pienamente dentro le città che vivo ed anzi nel prossimo lavoro lo sarò ancora di più perché si fonderà proprio sulle anime differenti delle città. Diciamo che si è usciti dalle stanze.

 

Se dovessi pensare ad un colore per questo disco mi verrebbe in mente il grigio delle strade. E tu invece cosa risponderesti?

Io vedo un grigio con delle sfumature di blu e porpora. Ma un grigio che sa sbiadire e scurirsi, che si fa reggere da bianco e nero.

 

Andrai mai via dall’immaginario di una città di “Palazzine” e di “Domenica” per concedere alla tua musica altri scenari, magari qualcosa di più naturalistico?

Onestamente non saprei. Dovrei forse attingere a delle parti di me alle quali non sono ancora arrivato. Sicuramente non accadrà nel prossimo lavoro.