A Ravello una festa con Chick Corea e Bollani

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11 luglio 2009, Belvedere di Villa Rufolo, cornice magica della costiera amalfitana, luna bassa, rossa, mare calmo e silenzioso, il pubblico entra rapido ed affolla fino all’ultimo posto, dai giardini alla tribuna, ed aspetta con ansia l’inedito duo Armando Antony (Chick) Corea e Stefano Bollani.
Ad attenderli due gran coda YAMAHA, contrapposti, ignari delle 4 mani che da lì a poco gli daranno vita ed anima.
 
I due pianisti entrano in scena, e lentamente si siedono ed è Bollani a dare il via allo spettacolo e/o concerto, seguito dal composto Corea che lo asseconda quasi in sordina, ma ben attento ad ogni singolo suggerimento e variazione del primo.
 Non è una lotta, ma un’intesa, una capacità unica di arrivare fino all’essenza profonda della cultura musicale dell’altro, modulandosi e stimolandosi, con una tecnica sbalorditiva. Parola d’ordine: pura e semplice IMPROVVISAZIONE.
 
I due sembrano vecchi amici che si vedono per una suonatina insieme. In realtà non si erano mai visti prima! E se pochi scambi di e-mail possono servire a qualcosa! E se solo e semplicemente il raccontarsi i propri gusti musicali per telefono! O se solo bastasse a tutti, se non a due geni, scambiare quattro chiacchiere al sound check per dar vita ad un’esibizione incredibile! Siamo davvero fortunati ad essere qui a Ravello e sentirli per la prima volta,  ben consapevoli  di assistere ad uno spettacolo che resterà unico, a mio avviso, anche se fossimo lì a vederlo ogni volta, anche se avessimo la possibilità domani di seguirli a Palermo e poi ad Umbria Jazz. Perchè a suonare sono  due “mattatori” del pianoforte, due musicisti che sembrano nati col cordone ombelicale legato a 88 tasti neri e bianchi. 


Bollani, che più che suonare sembra cavalcare la tastiera, sprigiona tanta di quella energia e vitalità da non riuscire a contenerla, tanto da dover partecipare con tutto il corpo al suono che ha nell’anima, e Corea, che composto, certo, come si addice ad un signore del jazz, si lascia però travolgere dalla rispettosa atmosfera goliardica posata su un piatto d’argento dal  Bollani, che gli prepara gags a cui Chick sembra non volersi sottrarre.


I due non si studiano, non si rincorrono, non lottano, non si affrontano, giocano a livelli altissimi con la musica che è loro pane quotidiano, la loro passione,  si fondono e si sorridono, si additano e scherzano tra mimica del corpo e note.
I due cambiano continuamente postazione come se uno o l’altro degli strumenti fossero più o meno adatti a creare quello che gli si profila man mano nella mente. E, non accontentandosi più dei tasti, percuotono con bacchette i martelletti e  fanno vibrare le corde con le dita tanto che in certi momenti, se solo fossimo riusciti a staccare per un attimo gli occhi da quelle mani che accendevano le tastiere, avremmo dubitato si trattasse solo di un duo, solo di 4 mani su due pianoforti, solo di due strumenti, ma magari più mani, più strumenti, un’orchestra .
 
Sandard del jazz certo, da “On green Dolphin Street” o “Someday My Prince Will Come” – che Chick suonava con il trio Acoustic Band – omaggiando Evans con “Stella by Starlight”, Thelonius con “Blue Monk” – anche questo suonato in chiave completamente diversa dal Gary Burton duo – ed Ellington con “Take the ‘A’ Train”.


La gente è completamente conquistata e, se non lo avessimo visto con i nostri occhi, non avremmo mai pensato che composte signore di mezza età, vestite con abiti da sera, potessero battere con i piedi sulle tavole dei gradoni o sganasciarsi dalle risate per le battute scherzose dei due che, ad un tratto, cominciano a rimbalzare sugli sgabelli, andando su e giù, guardandosi alle spalle come si aspettassero un qualche brutto scherzo, guardandosi intorno come due mimi sulle note di Crudelia De Mon. Poi di fronte ai due ignari pianisti compare un altro spettacolo, quello dei fuochi d’artificio di una festa di un qualche santo dei dintorni. Stefano e Chick non appaiono infastiditi, ma anzi ne traggono un nuovo spunto, mettendosi a giocare con i “botti”, fino a che Corea, alzando gli occhi al cielo, ormai contagiato dalla verve comica del toscano, ne siede accanto, ricominciando a giocare sullo stesso pianoforte.
 
Poi le incredibili ultime note di “Desafinado” di Jobim che sfociano in Ellington.
 
Il plauso del pubblico è scontato, i due si lasciano travolgere dal delirio della gente, degno di un concerto rock d’altri tempi, e si danno pacche sulle spalle con accenno di soddisfazione.


Avremmo fatto bel più ardue curve che quelle della costiera per non perderci una notte così.

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