Un moderno cantacronache

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Ve li ricordate i Cantacronache? Quelli erano gli anni ‘60, era Torino e c’era un movimento culturale che nella forma canzone metteva dentro letteratura, poesia, canto e tanto altro con l’impegno di valorizzare la canzone stessa e la società che viveva attorno. A distanza di 60 anni circa ritroviamo in Marco Cantini qualcosa di molto simile. La canzone d’autore che narra e fa cronaca, ci ricorda Bologna e ci riporta indietro nel 1977, alle rivoluzioni studentesche, ai carri armati dello stato, ad Andrea Pazienza e Tanino Liberatore, alla droga… e dentro tutte le canzoni, incastonati come preziosi tra le rocce, ci sono innumerevoli riferimenti alla poesia, alla pittura, al cinema e, ovviamente, ai fumetti. Un disco che già esteticamente si presenta bellissimo: un digypack disegnato a mano con fumetti e illustrazioni di Massimo Cantini (la copertina è curata da Pablo Echaurren). Suoni precisi, eternamente consegnati alla tradizione cantautorale italiana, una bellissima produzione firmata da Gianfilippo Boni che ospita numerosi ospiti – tra questi segnaliamo Enriquez della Bandabardò e Luca Lanzi della Casa Del Vento. Canzone d’autore difficile, sociale come poche oggi, di certo lontana dagli ascolti radiofonici. Dietro una parvenza di appeal melodico c’è tanta mistica ricostruzione e rispettoso senso civico di un’Italia che forse non esiste più.

 

 

 

Dietro le quinte di un disco simile, quanta vita vissuta c’è sul campo? Musicalmente e socialmente?

Direi moltissima, di entrambi: mi piace pensarlo come un agognato punto di partenza, ricercato in circa vent’anni di musica e canzoni scritte (la mia prima canzone risale al lontano 1993). Meglio tardi che mai, direte. Questo disco è qualcosa che può finalmente rappresentarmi appieno, realizzato così come l’avevo pensato e voluto. Dopo epoche di compromessi e inconsapevolezze. Ma anche di esperienze, ascolti e tante letture.

 

“Siamo noi quelli che aspettavamo”… cioè un ricordarsi che non abbiamo bisogno di miti che ci vengano a salvare, perché bastiamo noi stessi?

La tua è un’interpretazione condivisibile. Gli ascoltatori più attenti avranno notato come in tutte le canzoni del disco ricorra la prima persona plurale Noi: ovviamente un pronome non casuale; un rafforzativo che ha il chiaro intento di sottolineare un tentativo di resistere, contro ogni individualismo. Ed è una prospettiva dal basso che – inevitabilmente – ha un’impronta marcatamente politica.

 

Come si avvicina Marco Cantini ad un certo tipo di modello sociale e di periodo storico?

Sono sempre stato affascinato da ogni movimento o rivoluzione che in un certo qual modo abbia tentato di costruire una società migliore attraverso il rinnovamento di arte e cultura. Gli anni Settanta, in Italia, non sono stati solo questo: nelle ideologie più pietrificate e rozzamente codificate, l’arte era considerata una sorta di infezione borghese. Ma in questo clima nacquero rivoluzionari della comunicazione, con l’unico obiettivo di partecipare ad una critica ribelle del mondo contemporaneo, e alla lotta estetico-politica. Artisti che affermavano la propria identità nei progetti collettivi, giornali o comitati di lotta. Ma dove il collettivo non era più pensato come il partito-padrone, ma nasceva per esaltare la creatività, l’ironia, l’ingegno e la libertà degli autori.

 

Canzone d’autore di stampo molto classico. Una forma canzone che di sicuro ha poco di commerciale. Scelta stilistica o naturale stato di cose?

Penso sia semplicemente il naturale risultato degli ascolti di tutta una vita: non una scelta, ma la fisiologica conseguenza di ciò che ho amato, di come l’ho recepito e a mio modo sviluppato. Di ciò che in fondo sono.

Moltissime collaborazioni alla produzione. Come hai scelto i tuoi compagni di viaggio, con quale criterio? Qualche grande escluso?

Sono tutti grandi musicisti che io e Gianfilippo Boni (il produttore artistico dell’opera) abbiamo invitato a suonare in base alle peculiari esigenze di ogni brano. Mentre insieme calibravamo strutture e arrangiamenti, pensavamo a chi avrebbe potuto darci il meglio – in ogni determinato pezzo – al fine di ottenere quel particolare suono, quell’espressività immaginata che spesso per fortuna – nei fatti – è andata oltre la nostra immaginazione.

 

E dalla canzone d’autore italiana a chi hai rubato, da chi ti sei lasciato contaminare e a chi tendi artisticamente?

Ti faccio qualche nome e titolo tra i tanti: ho “consumato” dischi come “Ho visto anche degli zingari felici”, “Via Paolo Fabbri 43”, “Storia di un impiegato”, “Non all’amore né al denaro né al cielo”, “Rimmel”, “Il cielo capovolto”, e ascoltato sin da bambino i relativi noti cantautori che li hanno prodotti. Insieme a Ciampi, Rocchi, Battiato, e molti altri. Infine non dimentico un grande talento come Bianconi: “Sussidiario illustrato della giovinezza” e “Amen” in particolare dei Baustelle li ritengo capolavori assoluti.